“Un drammaturgo-Papa”: il saggio di Rocco Familiari svela i lavori teatrali di Giovanni Paolo II
Il 28 novembre, alle ore 17.30, verrà presentato, nella sala del Primaticcio della Società Dante Alighieri, il saggio di Rocco Familiari “Un drammaturgo-Papa”, sulla drammaturgia di Karol Wojtyla, edito da Studium. Pubblichiamo l’”Antefatto” premesso dall’autore a questa nuova edizione del suo lavoro, uscito nel 1995 come contributo a una biografia del papa-drammaturgo.
Nella lunga storia della Chiesa, degli oltre trecento, fra papi e antipapi, che si sono succeduti sul soglio di Pietro dal 64 d.C. a oggi, vi sono stati tanti pontefici pii, dediti soltanto al Magistero, e altri meno pii e addirittura guerrieri (il più famoso, il papa di Michelangelo, Giulio II della Rovere), pacifisti, cantori (il palermitano Sergio I) e peccatori (per tutti: Rodrigo de Borja, alias Alessandro VI, padre di Lucrezia e Cesare), amanti dei libri (l’“incantatore di matrone” Damaso I), ben dieci calabresi – non per nulla in Calabria è sorta la prima comunità cristiana, per opera di Paolo di Tarso che vi giunse nel 61 d.C. – fra cui un antipapa (Giovanni XVI), e un solo inglese (Adriano IV), un medico (Giovanni XXI) e addirittura un mago (l’alvernese Gerberto, vale a dire Silvestro II); in effetti fu un uomo dai vastissimi interessi culturali, ma secondo una leggenda popolare aveva fatto un patto col diavolo, al quale doveva l’eccezionale serie di promozioni, da Magister a Reims ad Arcivescovo di Ravenna, infine Papa a Roma, tant’è che alle tre “R” iniziali delle sedi in cui operò venne attribuito un significato magico, poeti (Alessandro VII, Fabio Chigi), noto per la sua raccolta di poesie Philomathi musae juveniles, ma ancor più perché durante il suo pontificato si convertì al cattolicesimo la Regina Cristina di Svezia, da tempo trasferitasi a Roma, dopo l’abdicazione, in quel Palazzo Riario diventato il centro della vita intellettuale e culturale della città, un Giovanni XXIII antipapa (Baldassarre Cossa), con lo stesso nome e numero ordinale del “Papa buono”, e papi abdicatari (da colui che “fece per viltade il gran rifiuto”, quel Pietro da Morrone, così bollato per l’eternità dall’Alighieri, che regnò soltanto per pochi mesi, col nome di Celestino V, al più recente, il tedesco Ratzinger, cioè Benedetto XVI, che è stato peraltro il primo Papa “emerito” della storia).
Fra i molti letterati, soltanto tre drammaturghi, precisamente Pio II (l’umanista Enea Silvio Piccolomini), Clemente IX (Giulio Rospigliosi) e Giovanni Paolo II, vale a dire Karol Wojtyla. Mentre però il primo ha scritto soltanto una commedia, Chrisis (per di più licenziosa…) e il secondo, nell’intento di dare forma teatrale all’opera comica, soprattutto libretti operistici, il papa polacco ha al suo attivo, oltre che un imponente corpus poetico, vari testi teatrali, senza dimenticare peraltro che da giovane è stato anche un bravo attore, esperienza che gli è servita, nella pratica pastorale, per catalizzare l’attenzione dei fedeli e non, e soprattutto per usare magistralmente il mezzo televisivo.
Il mio interesse verso i lavori dei due papi commediografi (Pio II e Giovanni Paolo II), nasce da occasioni diverse. Nel 1992 un produttore mi commissionò, non in quanto latinista, ma perché drammaturgo, la traduzione, in un linguaggio adatto appunto alla rappresentazione, della Chrisis, intendendo proporla al Festival di San Miniato. Io gli manifestai subito le mie perplessità, dato il soggetto della commedia che, sia pure scritta in un latino forbito, era ambientata in un bordello, e i protagonisti erano le “ospiti” dello stesso e i loro clienti, ma lui insistette e io portai a termine il lavoro che fu naturalmente rifiutato dalla Commissione valutatrice dei lavori da mettere in scena in un Festival di teatro “religioso”. Non era peraltro la prima volta che accadeva una cosa del genere: l’anno precedente infatti, lo stesso produttore mi aveva chiesto di tradurre e unificare in un’unica commedia i famosi Drammi di Rosvita, prima monaca e poi badessa del convento di Grandersheim, testo che, così adattato, avrebbe dovuto essere messo in scena da Giancarlo Sbragia, sempre al Festival di San Miniato. Anche allora il progetto era rimasto soltanto tale, atteso che l’infaticabile Badessa, nello scrivere le sue “operette morali”, col lodevole intento di illustrare alle consorelle cui erano destinate la bruttezza dei peccati carnali, indulgeva un po’ troppo nella descrizione dei peccati e meno in quella delle conseguenti punizioni divine…
L’incontro con Karol Wojtyla ha avuto invece una diversa genesi. Come ricorda Zanussi nella sua introduzione, devo a lui l’iniziazione alla drammaturgia di questo papa che egli aveva conosciuto al tempo in cui Wojtyla era arcivescovo di Cracovia, e sulla vita del quale aveva poi girato il lungometraggio Da un paese lontano. Per inciso, era un film che Zanussi non voleva assolutamente girare, ritenendo assurdo fare interpretare sullo schermo a un attore la figura di un personaggio vivente che gli spettatori potevano vedere tutti i giorni sulle reti televisive. Interessante quanto rievoca il regista nella sua autobiografia e cioè che alle sue ennesime rimostranze, lo scrittore cattolico Diego Fabbri, che era il supervisore del progetto, lo convinse dicendogli con estrema decisione: “Non importa se il film non sarà bello, l’importante è che sia utile!”. La categoria dell’“utilità” di un’opera d’arte apre scenari quanto mai problematici…
Una volta diventato papa, Wojtyla invitava spesso Zanussi in Vaticano per informarsi – da un concittadino di cui si fidava e che stimava – sulle vicende dell’amato paese. In genere si incontravano a cena, finita la quale, il regista veniva poi a cenare da me…. Non che fosse particolarmente vorace, ma il fatto era, come spiritosamente mi raccontava egli stesso, che il papa gli faceva delle continue domande e lui, per poter rispondere, doveva necessariamente tralasciare la pietanza, e il solerte cameriere che li serviva, non appena il papa aveva finito, portava via i piatti, ritenendo che l’ospite non avesse appetito o non amasse la cucina vaticana…
Durante quegli incontri Zanussi naturalmente mi parlava del papa, destando il mio interesse nei confronti di una figura per tanti aspetti straordinaria. Mi era accaduta una cosa analoga con Stefano D’Arrigo il grande scrittore siciliano, autore di quel capolavoro che è Horcynus Orca, che conobbi dapprima indirettamente, attraverso i racconti di un suo caro amico nonché consulente – per i trascorsi come ufficiale di marina – Cesare Zipelli (che aveva conservato un imponente epistolario con lo scrittore, facente parte ora del Fondo D’Arrigo del Gabinetto Viesseux, insieme con i manoscritti dell’opera, donati dallo scrittore), il quale mi regalò il primo testo pubblicato da D’Arrigo, il prezioso volumetto di poesie Codice siciliano, edito da Scheiwiller nelle raffinate edizioni della collana “All’insegna del pesce d’oro”. Mi parlava anche del romanzo di cui D’Arrigo stava correggendo le bozze (correzione che durò, com’è noto, ben diciassette anni…), per cui, quando finalmente questo fu pubblicato, mi affrettai a leggerlo, me ne innamorai perdutamente e lo recensii (sulla Gazzetta del Sud del 20 marzo 1975), polemizzando aspramente con un illustre critico che, senza neppure averlo letto, come egli stesso si era provocatoriamente vantato, lo aveva comunque stroncato. La mia recensione, dal titolo Horcynus e i saprofiti, piacque a D’Arrigo che volle conoscermi e da lì nacque una forte amicizia. Quando pubblicai la mia prima opera, il monodramma Ritratto di spalle, chiesi all’editore, sempre Scheiwiller, che venisse inserito nella stessa collana e con l’identico formato del Codice siciliano.
Nel caso del papa drammaturgo, l’occasione per approfondire la sua opera teatrale mi fu offerta da un piccolo, geniale editore col quale avevo pubblicato il testo del lavoro messo in scena da Zanussi nel 1992, Il Presidente (sul quale egli si sofferma a lungo nell’introduzione a questo volume). Ebbene, nel 1995, quell’editore si era convinto, a seguito di informazioni ricevute da uno dei medici del papa, che questi fosse in imminente pericolo di vita, per cui decise di pubblicarne immediatamente una biografia, oggi si direbbe un instant-book, commissionando a un bravo giornalista, inviato speciale di grandi settimanali, Enrico Nassi, il profilo biografico vero e proprio, e a Quinzio e a me, due scritti integrativi, rispettivamente sulla teologia del papa e sulla sua drammaturgia. Io mi impegnai fortemente nel lavoro di ricostruzione della temperie in cui era maturata l’opera teatrale di Wojtyla e di analisi dei suoi testi principali. Il volume uscì per tempo, ma com’è noto, il papa visse fortunatamente ancora per vari anni… Quella biografia ebbe una certa diffusione, e il mio scritto ottenne il premio per la saggistica della Presidenza del Consiglio. Venne poi tradotto in polacco, pubblicato su un’importante rivista di quel paese e regalato al papa in occasione della sua seconda visita in Polonia. L’ho in seguito inserito nel volume Teatro (edito nel 2008 da Gangemi), che raccoglie tutti i miei testi teatrali scritti fino ad allora e i saggi di drammaturgia.
Le ragioni per cui ora lo ripropongo in volume a sé stante sono due. La prima deriva dal fatto che della figura di Wojtyla drammaturgo, per quanto possa sembrare strano, siamo stati in pochi a occuparcene (che io sappia, oltre al curatore della sua opera per le edizioni Vaticane, Boleslaw Taborki, un inglese, uno polacco e un americano) e il mio testo, ormai di difficile reperibilità, mi viene spesso richiesto da studiosi e soprattutto da studenti polacchi per le loro tesi di laurea (ultima, Emilia Sliwa, si è laureata all’Università Jagellonica di Cracovia, la stessa in cui hanno studiato sia Wojtyla sia Zanussi, con una tesi intitolata “La parola è anche un mistero” – Come tradurre la parola poetica di Karol Wojtyla).
Le seconda, non… secondaria, è che una drammaturgia come quella di Wojtyla, tutta centrata sui problemi fondamentali dell’esistenza, espressa con un linguaggio denso, aderente cioè alla complessità dei temi trattati, è quanto mai importante soprattutto in un momento come quello che viviamo, in cui la parola, scritta o parlata, sembra aver perso ogni valore, e il teatro ha imboccato da tempo una strada che contraddice la sua storia millenaria. Le performance “muscolari” di attori alla ricerca di effetti facili, sotto la guida di registi-demiurghi che considerano il testo – la letteratura teatrale cioè, quella, per intendersi, di Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare, Moliere, Ibsen, Pirandello, Schnitzler, Büchner, Miller, fino al recente Nobel, Fosse – niente di più di un pretesto per le loro, spesso demenziali, messinscene, non costituiscono un progresso, l’attualizzazione di un’arte ormai obsoleta, ma semplicemente una manifestazione di supponente ignoranza. Ma c’è di peggio: oggi il teatro, soprattutto italiano, è un fatto puramente gestionale. Non è un caso che alla recente provocazione di un autorevole critico che poneva, su un altrettanto autorevole quotidiano, per l’ennesima volta, la questione di dove vada la drammaturgia, il giornale abbia invitato a rispondere soltanto gestori o direttori di teatro (anche qualche regista solo perché anch’egli responsabile di uno spazio teatrale), ma nessun drammaturgo.
Nello stesso arco temporale, la Fondazione Vallecorsi ha pubblicato un volume (Prospectus, edito da Pagine nel 2023, a cura di Moreno Fabbri) sullo stesso argomento, chiedendo a operatori dello spettacolo, fra cui, questa volta, anche autori, una risposta alla domanda: Quale drammaturgia per il XXI° secolo? Nel mio contributo, ho ripreso vari punti che avevo sviluppato proprio nel saggio sulla drammaturgia del papa polacco, soprattutto quello relativo alla “indispensabilità” di una letteratura teatrale che non interrompesse il filo con la storia e che affrontasse i temi cruciali del vivere. È su questa comune convinzione che si fonda il mio, ormai più che trentennale, rapporto di collaborazione e amicizia con Krzysztof Zanussi. Ci siamo conosciuti nel 1992, tramite un comune amico, Leonardo Valente, un giornalista cattolico, fondatore dell’Avvenire, e, all’epoca, Direttore dei Tg regionali della Rai (la più grande redazione giornalistica d’Italia, sottolineava con orgoglio, con centinaia di corrispondenti diffusi sul territorio nazionale). Leonardo aveva lavorato con Zanussi a un documentario e a un volume sulla figura di Wojtyla e quando gli dissi che cercavo per il mio testo, Il Presidente, un regista teatrale che avesse anche dimestichezza con la macchina da presa, lui pensò subito a Zanussi, il quale, letta la commedia, accettò subito la sfida.
Si trattava infatti di un’operazione estremamente complessa – il lavoro pretende una continua interazione fra l’azione scenica e dei filmati preregistrati – e costosa. Nel 1992 la tecnologia era, rispetto a oggi, affatto primitiva, e il lavoro di registrazione degli inserti filmati, di messa a punto per la proiezione su una videowall e di “montaggio” con le battute degli interpreti sul palcoscenico, durò parecchi mesi. Utilizzai lo stesso metodo per un altro lavoro, Amleto in prova, messo in scena al Festival dei Due Mondi di Spoleto da Mario Missiroli nel 2004, ma i progressi intervenuti nel frattempo consentirono di accelerare fortemente i tempi e soprattutto di abbattere i costi. La realizzazione de Il Presidente fu possibile soltanto perché Zanussi riuscì a ottenere la sponsorizzazione di un’importante società franco-americana che stava lanciando l’alta definizione, impegnandosi a girare le scene filmate con quel sistema. Il Teatro “Valle” di Roma fu trasformato in un enorme studio televisivo, e alla prima assistette tutto il mondo della televisione, del cinema e del teatro italiano. Lo spettacolo ebbe un’accoglienza per così dire schizofrenica: il pubblico, in tutti i teatri in cui fu rappresentato (quasi duecento e l’ottantenne Raf Vallone, protagonista assoluto del lavoro, ogni sera debuttava in una città diversa), reagiva entusiasticamente; la critica si spaccò esattamente a metà, molti si sprecarono in elogi, parlando di un’opera geniale, in anticipo sui tempi, altri lo stroncarono impietosamente, arrivando perfino a insulti veri e propri nei confronti dell’autore e del suo complice, il regista… Da allora, Zanussi e io, sempre complici, abbiamo fatto tante cose insieme, come puntualmente riporta nella sua introduzione, avendo entrambi una identica visione, che potrei definire “etica”, del teatro e della scrittura in genere.