Un’ondata genuina e trasgressiva di letteratura, arte, musica alte: è l’ora del riscatto dell’identità italiana
Lungo molti secoli, l’identità italiana non poté contare sul sostegno e sulla guida di uno Stato, come invece accadeva, in vario modo, in Spagna e in Inghilterra, e soprattutto in Francia. Uno Stato italiano si dovette attendere dal VI secolo (invasione dei Longobardi, ma loro conquista incompleta) al XIX; e ogni tentativo di unificazione trovò resistenza non tanto dagli “Oltramontani”, quanto da potentati interni alla ricerca dell’equilibrio contro i vicini. Eppure nessuno negava di trovarsi in Italia, e perciò avere un’identità italiana, se non quella di un re, almeno quella di una cultura e di una lingua.
La glottologia e la dialettologia, quando agiscono come scienze, avrebbero molto da ridire, ma tutti gli Italiani pensavano, e in maniera irriflessa pensano, che i moltissimi dialetti siano varianti di una parlata comune, ed essa stessa, e i dialetti, varianti “volgari” del latino. Tantissimi ritengono, e hanno ritenuto nel passato, che esistesse una lingua italiana, e che questa fosse la possibile identità nazionale. Si è sempre sospettato che l’identità fosse culturale, quindi dei dotti e di pochi, e non popolare. Lo stesso Dante, che è considerato il teorizzatore della lingua, in verità compie quest’operazione in un’opera che s’intitola “De vulgari eloquentia”, cioè la lingua italiana della letteratura; e affida a questa il compito di creare una lingua propriamente detta. Nonostante la presenza sempre in agguato del latino, e il fallimento di ogni tentativo di unificazione politica, l’italiano diventa, di fatto, la lingua di tutti i tantissimi Stati dell’età moderna; e quando l’unificazione avvenne, il Regno adottò, sempre di fatto, l’italiano manzoniano, modello rivolto alla classe media, alla burocrazia, alla politica e all’esercito.
Ma l’italiano della cultura non era stato questo, bensì quello di alto stile del Petrarca, del Bembo, e fino almeno al Leopardi; e poi al Carducci e d’Annunzio. Ed era un’identità squisitamente culturale nel senso classico e dotto della parola cultura. In questo senso, l’identità italiana è stata, agli occhi del mondo, e degli stessi Italiani, quella della poesia, dell’arte, della musica. Perché questa disadorna lezioncina? Per chiederci se e quanto sia vivo in questo declinante 2024 di quella secolare identità.
La lingua di oggi è quella dei libri di scuola e della televisione; mentre la letteratura, con pochissime eccezioni, non pare lasciare il segno; e anche pubblicazioni che paiono ottenere grandissimo successo, in realtà durano il tempo di prendere il premio letterario a favore di telecamere. È anche una questione di lingua e di linguaggio; ma soprattutto di contenuti, con tematiche piccolissimo borghesi, che, per forza, generano un linguaggio altrettanto piccolo, e spesso noioso.
L’ultima arte italiana è il futurismo, inteso sia come espressione artistica sia come fenomeno sociologico e politico. Il futurismo però è oggi un ricordo fastidioso per qualcuno; e per altri quasi un capitoletto di libro da studiare in fretta a scanso di polemiche. È oggi scomparsa l’arte italiana per eccellenza, che fu nei secoli l’urbanistica con l’architettura: basta entrare in una recente chiesa… e non mi fate continuare. La musica… sono ancora sotto il triste effetto di aver sentito, viaggiando di notte, una trasmissione radio la quale mi spiegava che tantissime canzoni italiane della mia giovinezza erano nude e crude traduzioni di canzonette straniere: amara sorpresa.
La storia italiana è, semplicemente, trascurata. Famosi testi di scuola dedicano decine di fogli alla Guerra dei cent’anni, e una paginetta scarsa al 1860 con luci e ombre; segno evidente che il libro è scopiazzato da qualcosa di francese; e gli storici francesi danno sempre ragione alla Francia, anche quando parlano di Waterloo. Non vi dico nemmeno della storia romana, che viene raccontata, soprattutto in certi filmoni patacca, come una specie di diagnosi di massa di pazzia di imperatori e di folla: palese effetto del “los von Rom” di Lutero. Non oso accennare alla storia del Meridione, che è fugace cenno alla Magna Grecia; qualche centinaio d’anni di monaci bizantini, e solo monaci; e la fucilazione di Murat senza molto attardarsi a spiegare chi era e perché in quella guisa morì. I fatti del 1860 è ben evidente che imbarazzano sia i “piemontesi” sia i “borbonici”, perciò, a parte inesattezze, quando non sono invenzioni da entrambe le parti, si sorvolano. Un solo bel film, e realistico, quello di Pasquale Squitieri, “Li chiamarono…briganti”, è stato censurato; e potete vederlo solo su Youtube.
Seconda guerra mondiale? Praticamente ridotta all’8 settembre; del resto, anche la Prima è quasi solo Caporetto. Quel poco, voglio dire… Banale concludere che occorre una politica culturale nel senso più alto. Serve anche un intervento pubblico, ma quello che conta è un’ondata genuina e trasgressiva di alta letteratura, di alta arte, di alta musica. Per carità, non si può fare una legge che vieti il piagnisteo politicamente corretto e il buonismo ben compensato; ma si possono isolare i lacrimatori di professione, i musicanti copioni, gli architetti da fienile, i romanzieri da poveracci. Che ne dite di un Premio letterario “Italia”, che cestini tutti i prodotti di scarto, e premi non il presunto “contenuto”, bensì la qualità della parola e della tecnica?
Occorre anche far cinema davvero, con veri attori e non faccine belline, con veri testi, con forti emozioni; e perciò anche una letteratura che lo ispiri. Tanto i film intellettuali superpremiati (e superforaggiati!) li vanno a vedere solo i parenti del regista, con biglietto omaggio. Cinema, come letteratura, non si creano a comando, è ovvio; però la cultura è sempre stata tra le cure dei buoni governi.