Addio a Jimmy Carter, il presidente Usa che sfidò il comunismo e il “compromesso storico” italiano

30 Dic 2024 8:40 - di Luca Maurelli

Conservatore, pacifista, paladino dei diritti umani, anticomunista: Jimmy Carter si è spento ieri a 100 anni attorniato da figli e nipoti e bisnipoti, lasciando un’eredità storico-politica importante, non solo per la sua longevità alla Casa Bianca ma anche e soprattutto per la trincea alzata, dalla prima elezione, nel 1977, all’affermazione dell’eurocomunismo, che in Italia si stava realizzando con la formula del “compromesso storico”, prima del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro.  “Il presidente Carter cominciò ad interessarsi alla politica italiana già prima di diventare presidente, per corteggiare gli elettori italo-americani; infatti, in un discorso del 1976, disse che avrebbe di certo odiato vedere l’Italia diventare comunista…“, raccontano studiosi del calibro del professor Marchetti della Luiss.

“Il comunismo non ha nulla a che vedere con l’amore. Il comunismo è un eccellente martello che usiamo per distruggere il nostro nemico”, era una delle frasi di Mao Tse Tung che Carter amava citare.

Jimmy Carter e l’argine al comunismo in Europa

Jimmy Carter, fin dall’inizio, nella corsa alla Casa Bianca, segnò l’affermazione politica e culturale dei neoconservatori, sostenitori di una linea di politica estera aggressiva nei confronti dell’Urss che poggiava su una riproposizione del paradigma totalitario per l’analisi del comunismo. Il 12 gennaio 1978 il presidenye Carter ammonì a non perseguire governi “in coalizione” col PCI. La dichiarazione servì per contrastare in Italia e in Europa un’interpretazione errata sulla cosiddetta “apertura” ai comunisti.

Lo storico italiano Silvio Pons ha spiegato molto bene la tensione di quegli anni dominati dalla figura di Carter. “Berlinguer era un dirigente comunista per il quale, all’epoca, era fondamentale l’idea che la guerra fredda fosse stata scatenata nel ‘47 dagli Stati Uniti per allontanare il movimento operaio dal governo del Paese ed era convinto che negli anni Settanta fosse venuto il momento di ripristinare il primato originario dell’antifascismo sull’anticomunismo. Questa era una visione inaccettabile non dico per Jimmy Carter e per il suo ambasciatore Richard Gardner, ma per lo stesso Moro…”.

Il lutto nazionale e i funerali di Stato

“Oggi, l’America e il mondo hanno perso uno straordinario leader”, sono state le parole del presidente Usa Joe Biden, che ha ricordato l’impegno per “sradicare le malattie, forgiare la pace, promuovere i diritti civili e umani, promuovere elezioni libere ed eque, ospitare i senzatetto e difendere sempre gli ultimi tra noi. Ha salvato, sollevato e cambiato la vita di persone in tutto il mondo”.

Biden definisce Carter “un uomo di grande carattere e coraggio, speranza e ottimismo” e ricorda l’amore che lo unito alla moglie Rosalynn, invitando “tutti i giovani di questa nazione e a chiunque sia alla ricerca di cosa significhi vivere una vita con uno scopo e un significato, la bella vita, a studiare Jimmy Carter, un uomo di principi, fede e umiltà. Ha dimostrato che siamo una grande nazione perché siamo un popolo buono, onesto e onorevole, coraggioso e compassionevole, umile e forte”. Per Carter, funerali di Stato.

La storia del presidente più longevo degli Stati Uniti

Il primo ottobre Carter aveva compiuto 99 anni, rinnovando ancora una il record di presidente più longevo. Prima di lui il più longevo era stato George H.W. Bush che è morto a 94 anni nel 2019. Un’altra cosa unisce i due ex presidenti: entrambi sono tra i pochi ex inquilini della Casa Bianca che non sono stati riletti ad un secondo mandato.

Alla guida degli Stati Uniti fra il 1977 e il 1981, il democratico Jimmy Carter ha vissuto un mandato presidenziale segnato dalla drammatica crisi degli ostaggi nell’ambasciata americana a Teheran e dal tragico fallimento dell’operazione militare per mettervi fine. Sconfitto da Ronald Reagan, Carter ha poi avuto una seconda vita pubblica grazie all’impegno della sua Carter Foundation che gli fruttò il premio Nobel per la pace nel 2002.

James Earl Carter Jr. era nato il primo ottobre a Plains in Georgia. Dopo aver frequentato l’accademia navale, servì nei sommergibili della Us Navy nell’immediato dopoguerra. Nel 1953, la morte prematura del padre lo costrinse a prendere le redini dell’azienda agricola di famiglia per la produzione di noccioline. Animato da una profonda fede battista e impegnato contro la segregazione razziale, Carter si lanciò in politica, diventando prima senatore e poi governatore della Georgia.

Nel 1976 vinse a sorpresa le primarie democratiche, malgrado fosse inizialmente poco conosciuto fuori dal suo stato. Considerato un outsider, a novembre sconfisse di misura Gerald Ford, che aveva assunto la presidenza dopo le dimissioni di Richard Nixon per lo scandalo Watergate. Carter esordì perdonando quanti che, per motivi di coscienza o opposizione politica al conflitto, si erano sottratti alla leva per andare a combattere in Vietnam.

L’impegno sull’energia e sul fronte della Guerra Fredda

Durante la sua presidenza, Carter si impegnò per creare una politica nazionale per l’energia e, sul piano diplomatico perseguì una politica di pacificazione. Grazie agli accordi Camp David, favorì la firma della pace fra Egitto e Israele nel 1979. Con l’Unione Sovietica negoziò il secondo round del trattato Salt sulla limitazione delle armi strategiche. Ma il 1979 fu segnato dalla crisi energetica e, alla fine dell’anno, dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, che fece ripiombare il mondo nel clima della guerra fredda.

Il sistema migliore per esportare la libertà nelle altre nazioni è dimostrare che la nostra democrazia vale la pena di essere copiata”, è una delle frasi che ci ha lasciato Jimmy Carter in eredità. Da sola, forse, spiega meglio di tutto il suo Nobel per la Pace.

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