L’intervista. Greta Cristini: “L’Italia non solo può, ma deve ambire a un ruolo da protagonista nel Mediterraneo”

1 Dic 2024 9:07 - di Alice Carrazza
greta cristini

Di fronte alle sfide di un mondo in continuo mutamento e di equilibri internazionali sempre più fragili, l’analista geopolitica e reporter di guerra Greta Cristini offre una prospettiva approfondita sugli scenari globali attuali. Con un background che spazia dall’esperienza come avvocatessa anticorruzione a New York alla collaborazione con la rivista “Limes“, Cristini ha trascorso mesi sul campo nelle zone calde — prima in Ucraina e poi dopo il 7 ottobre in Israele e Palestina — fornendo analisi dettagliate delle dinamiche militari e politico-diplomatiche. In questa intervista, condivide le sue riflessioni su temi cruciali come la vittoria di Trump, il conflitto in Ucraina, le tensioni in Medio Oriente e il ruolo strategico dell’Italia nel Mediterraneo.

Con il ritorno di Trump alla Casa Bianca vedremo un’America isolazionista a parole ma iper-interventista nei fatti?

«Né Trump né l’America possono permettersi di essere isolazionisti, nonostante l’opinione pubblica chieda un maggiore focus sulle crisi interne, come il rilancio della classe media e della base industriale. Nei fatti, assisteremo a un tentativo di stabilizzare e pacificare alcuni quadranti, dall’Ucraina al Medio Oriente, il che potrebbe comportare tattiche di pressione massima, come con l’Iran, e retoriche bellicose anche nei confronti della Russia. Tuttavia, sarà nella guerra commerciale con la Cina che si concentreranno i maggiori sforzi del nuovo presidente».

Il conflitto in Ucraina è diventato un palcoscenico geopolitico. Crede che Kiev sia pronta a negoziare? Cosa rischia l’Europa?

«Kiev sarà costretta a sedersi al tavolo negoziale: lo sarebbe stata con Harris e lo sarà con Trump. È la realtà sul campo a dettare le condizioni: una linea del fronte dove l’esercito russo è all’offensiva e quello ucraino è in difficoltà, con soldati insufficienti e vicini al cedimento. A questo si aggiunge un fronte interno che si prepara a un inverno rigido, con un morale basso e un’opinione pubblica sempre più favorevole a chiudere il conflitto, anche a costo di concessioni territoriali. Zelensky sta già prendendo atto della situazione, avendo dichiarato per la prima volta di rinunciare a riprendersi la Crimea con la forza. L’Europa rischia di essere parte del negoziato e non attore al tavolo: Trump proverà ad addossare a noi la garanzia della sicurezza militare del territorio ucraino, benché non abbiamo le capacità per farlo».

La Siria è storicamente il “cimitero delle ambizioni occidentali”. Crede che la guerra si stia spostando verso nuovi fronti o  che si stia allargando?

«Puntualmente quando la mezzaluna sciita si trova in difficoltà come adesso con l’indebolimento di Hezbollah, delle milizie filo-iraniane in Siria e Iraq, e del loro patron, ovvero l’Iran, l’estremismo sunnita riemerge. Questo spiega quanto sta accadendo con la presa di Aleppo da parte dei ribelli jihadisti. Sono dinamiche ormai tipiche della polveriera mediorientale in essere da decenni».

In Medio Oriente stiamo assistendo alla nascita di nuovi equilibri o sono sempre gli stessi attori a scontrarsi? Tra Israele, Iran e Arabia Saudita chi sarà l’attore decisivo nel prossimo futuro?

«In Medio Oriente si stanno ridefinendo gli equilibri tra gli attori di sempre. Nei prossimi mesi, vedremo gli Stati Uniti cercare di integrare Israele nella regione tramite un avvicinamento diplomatico e militare con l’Arabia Saudita, già avviato con gli Accordi di Abramo del 2019. Trump e Netanyahu sfrutteranno la crisi interna e la perdita di influenza della Repubblica islamica e del suo Asse della Resistenza (o del Male), forti anche dell’inevitabile transizione generazionale a cui la leadership clericale di Teheran sta andando incontro. Nella migliore delle ipotesi questo potrà condurre a un nuovo accordo fra Usa e Iran che includa anche il programma nucleare iraniano. Nel peggiore, a un proseguo della conflittualità. Nei teatri locali, come Gaza e Cisgiordania, Israele cercherà di mantenersi mano libera per raggiungere concettualmente un nuovo ordine dai contorni ancora indefiniti, un Grande Israele, ma che nei fatti coinciderà con un proseguo di violenze e distruzione che rischia di concretizzarsi nella pulizia etnica del popolo palestinese».

L’Italia può ambire a un ruolo di peso nel Mediterraneo? Come si confronta con le ambizioni della Turchia?

«L’Italia non “può” ma “deve” puntare a un ruolo da protagonista nel Mediterraneo, che rappresenta il nostro giardino di casa e il fianco sud della Nato. Per un Paese votato all’export come il nostro, un Mediterraneo libero e pacifico è condizione esistenziale. Per farlo Roma dovrà tornare a negoziare bilateralmente con Washington assicurando affidabilità e responsabilità, tanto più con Trump che predilige questo tipo di rapporti rispetto al multilateralismo delle buone intenzioni e dei pochi fatti. In questo nuovo dialogo, Meloni può sfruttare il canale privilegiato di Musk e l’assenza di leadership nell’asse renano, i cui due governi, quello francese e tedesco, sono entrambi in profonda crisi. Dopo la fine della guerra in Ucraina, gli americani cercheranno di diminuire il loro impegno in Europa, il che, ad esempio, significa l’abbandono della presenza costante delle portaerei nel Mediterraneo. Dopo aver dimostrato a Washington di poterci spingere fino all’Indopacifico con un gruppo portaerei squisitamente nazionale, è ora di chiedere endorsement e supporto effettivo alla nostra autorità in queste acque. La Turchia è anche un paese Nato, di questo Ankara deve rispondere. Il problema nel Mediterraneo sono i russi a Tobruk e a Tartus, così come i loro sommergibili».

La Francia ha aperto la difesa europea a investitori extra-UE. Un sistema di difesa europeo indipendente è ancora possibile?

«Anche prima della svolta francese, la Germania si opponeva al principio “Buy European”, preferendo armi israeliane e americane per la difesa aerea. Mancano quindi visione comune e condivisione degli obiettivi, soprattutto tra Parigi e Berlino, che storicamente competono per la guida e la traiettoria da imprimere al Vecchio continente. La domanda vera è: chi guiderà un sistema di difesa europeo? La Francia vorrebbe farlo, sfruttando il vantaggio della sua force de frappe, mentre la Germania preferisce rimanere sotto l’ombrello americano per paura, incapacità e indecisione. E noi italiani? E i polacchi? Washington, pur richiedendo maggiori responsabilità ai governi europei, difficilmente ci permetterebbe una vera autonomia strategica, che potrebbe portare a un’apertura alla Russia da parte dell’Europa occidentale.

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