Ad Acca Larenzia i flash morbosi di decine di giornalisti. Ma non è il red carpet di Venezia
Giornalisti ovunque, decine di telecamere, operatori, inviati, fotografi fin dalle 8,30 di mattina a Roma ad Acca Larenzia di fronte alla storica sede del Msi. Tutti in attesa spasmodica della commemorazione della strage di 47 anni fa nella quale vennero lasciati sul selciato senza vita tre giovanissimi militanti del Fronte della Gioventù: Francesco Ciavatta, Franco Bigonzetti e Stefano Recchioni. Uccisi i primi due da un commando dell’estrema sinistra, il terzo da un agente delle forze dell’ordine. Tutti a filmare, a strappare interviste, a cercare il passo falso della destra, il braccio sollevato, la parola sbagliata, il tasso di neofascismo residuo di quella comunità politica (esponenti di spicco di Fratelli d’Italia, militanti di Gioventù nazionale, fratelli maggiori, simpatizzanti) nell’atto del ricordo di tre ragazzini innocenti uccisi dall’odio maledetto degli anni di piombo.
Ad Acca Larenzia l’omaggio di FdI a 47 anni dalla strage
Acca Larenzia fu una strage. Resa ancora più cupa dal clima di omertà. Dalla responsabilità della giustizia italiana e del sistema politico che assecondarono l’ignobile tesi “uccidere un fascista non è reato”. Con Radio Onda Rossa a esultare per la morte dei tre “fascisti”. Con i consiglieri comunali del Pci a brindare per l’uccisione dei topi fascisti. Una strage che portò al suicidio due anni dopo del papà di Ciavatta. Quest’anno per l’omaggio alle tre vittime di una mattanza per la quale nessuno ha pagato dopo quasi mezzo secolo la stampa non ha badato a spese. Ordine di scuderia di direttori e capiredattori: fotografare tutto, anche gli attimi più intimi del ricordo quando, dopo la deposizione della corona di alloro fasciata dal tricolore, i presenti in assoluto silenzio hanno portato la mano al cuore in segno di vicinanza ideale. Nessuna marzialità, nessuna mascella in bella mostra, soltanto una mano sul cuore per rinnovare la memoria di quel sacrificio innocente, rimasto senza giustizia. Per dire che quei morti non appartengono a una parte politica, ma sono ‘pezzi viventi’ della nostra storia nazionale.
Decine e decine di giornalisti per filmare ‘il passo falso’
Da quel 7 gennaio 1978 tutto è cambiato. Ma non l’omaggio che di anno in anno puntuale ritorna. Sobrietà e commozione sotto un cielo nuvoloso e mesto. C’erano i ragazzi di Gioventù nazionale che nel 1978 non erano nati, parlamentari, consiglieri regionali e comunali, testimoni oggi ultrasessantenni di quella tragedia. Un atto doveroso per non cancellare la memoria, per tanti una spinta irrazionale a confermare un antico giuramento, ma per i cronisti c’è solo la ricerca dello scatto che fa notizia. Ad alimentare il racconto di una destra nostalgica che scava scava non ha fatto i famigerati ‘conti con il passato’ e che rappresenterebbe una minaccia per la tenuta democratica. Così per tutta la cerimonia un ticchettìo convulso di flash da far invidia al red carpet del Festival di Venezia. All’improvviso il capannello di giornalisti corre in direzione di via della Cave. Che succede? Si è sparsa la notizia che è in arrivo il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca e tutti si spostano come un nugolo di api attratte dal nettare. Non è così, il governatore arriverà poco dopo e la corsa rientra. C’è un po’ di sconcerto tra i presenti, paparazzati loro malgrado neanche fossero star. Qualcuno sorride amaramente, qualcuno è in imbarazzo, vorrebbe – pensate un po’ – un minimo di pietas ed essere lasciato in pace con i suoi pensieri. Qualcuno è costretto a chiedere gentilmente alla stampa di lasciare lo spazio fisico per concludere la cerimonia.
Un interesse morboso che non si è visto gli anni passati
Altri, Francesco Rocca, Fabio Rampelli, Federico Mollicone, Andrea De Priamo cedono alle pressioni dei microfoni. Si chiede conto della parola “camerati” sulla lapide dedicata a Stefano Recchioni, rimossa qualche giorno fa (presa a picconate) dal Campidoglio. “Se fossi un giornalista – la risposta – farei un’inchiesta seria per scoprire i colpevoli, rimasti impuniti, di quell’eccidio. E mi domanderei, per esempio, chi ha messo armi da guerra in mano a ragazzi di 18 anni per ‘esercitarsi’ contro i fascisti, perché nessuno ha seguito le tracce della mitraglietta skorpion tracciata che ha ammazzato Ciavatta e Bigonzetti”. Un interesse morboso, che non si è visto negli anni passati, quando per intenderci la destra di Giorgia Meloni non era a Palazzo Chigi. Per decenni, con presidenti del Consiglio e ministri dell’Interno espressione del Pd, sulla commemorazione della strage di Acca Larenzia è regnato il silenzio più totale. Nessuno scandalo di fronte a cortei decisamente più imponenti di quelli attuali. Ma all’epoca non serviva piegare la memoria di tre ragazzi ammazzati per la mostrificazione della pericolosa destra al governo della nazione. Di pericoloso c’è solo l’escalation di provocazioni che hanno preceduto la ricorrenza, dalla mossa del Campidoglio alla richiesta dell’Anpi di vietare la manifestazione pomeridiana.
La provocazione di un residente. Ma nessuno lo ascolta
Cattivi maestri che non si rassegnano. E che qualcuno ascolta, come un residente in cerca di guai che durante la manifestazione da lontano urla: “Viva la Costituzione italiana, viva la resistenza. Merde”. Nessuno gli dà spago. Nessuno cede alla tentazione di reagire. Peccato per i giornalisti assiepati lì da ore. I ragazzi gli danno le spalle e preferiscono volgere lo sguardo al manifesto con il profilo di un gabbiano che recita: “Inghiottiti dalla violenza ragazzi innocenti cadevano nelle strade, il potere brindava sui loro corpi. Noi, la vostra storia, noi, quegli anni che non torneranno. Franco, Francesco, Stefano, il sogno vive, l’amore divampa, irrompe l’allegria”,