Il “nostro” Mishima oltre le “appropriazioni” indebite e le forzature interpretative della sinistra

15 Gen 2025 18:21 - di Mario Bozzi Sentieri

Contrordine compagni: dimentichiamo le vecchie “appartenenze” culturali e cerchiamo piuttosto di “ribaltarle”, archiviando storiche e ben rodate appartenenze. E’ l’ultima ridotta di una cultura (progressista) in disarmo, alla disperata ricerca di una nuova legittimazione. Ed è cronaca di questi giorni con J.R.R. Tolkien, il padre de “Il Signore degli Anelli”, derubricato a oggetto di “un’appropriazione indebita” – secondo Stefano Cappellini (su “Robinson”) – da parte di una destra in cerca di … autori (eravamo nel 1977, l’anno di Campo Hobbit, mentre a pubblicare la prima traduzione italiana era stato, nel 1970, Rusconi, non proprio un editore “di sinistra”) e con Yukio Mishima, del quale il 14 gennaio è caduto il centesimo della nascita, “riscoperto”, sulle pagine de “La Repubblica” , da Raffaella De Santis che, messa da parte l’idea dello scrittore-samurai, arriva ad offrire l’immagine di un Mishima “ironico, fluido e non fascista”, immagine opportunamente contestata da Giuseppe Del Ninno sul “Secolo d’Italia”, che individua il “faro del suo cammino” nella tradizione, “fatta di senso dell’onore, di coraggio, di obbedienza al divino imperatore”.

Molti di noi lo scrittore-samurai lo abbiamo letto – senza particolari forzature interpretative – con questa ottica. Scoperto, in gioventù, grazie al libro “Sole e Acciaio” (pubblicato dalle Edizioni del Borghese nel 1972, con la prefazione di Pierre Pascal), Mishima aveva il pregio, ai nostri occhi, di sintetizzare, nelle idee e nell’esempio, il suo sogno ad occhi aperti, la testimonianza delle sua fede in un futuro “diverso”, in cui la Tradizione e i valori tradizionali avrebbero potuto ritrovare il loro posto in una società allo sbando.
Quando, il 25 novembre 1970, egli, il più grande scrittore giapponese del Ventesimo Secolo, si diede la morte, a quarantacinque anni, secondo il rito tradizionale del seppuku, il mondo era infatti percorso dai venti della Contestazione, frivola e fricchettona, tutta peace and love.

L’atto esemplare, compiuto nella sede della Japan Defense Agency, occupata simbolicamente, a Tokyo, assunse, proprio per il suo radicalismo, un valore che andava ben oltre i confini del suo Paese. Mishima , prima di immergere la lama della sua spada nel ventre, per circa dieci centimetri, il capo cinto dalla benda bianca con al centro un sole rosso, aveva lanciato il suo atto d’accusa contro la politica di disarmo materiale e morale del Giappone, chiedendo ai soldati che lo ascoltavano di rimanere fedeli allo spirito degli avi e di mantenere viva la tradizione dei samurai, così concludendo il suo appello: “Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! E’ il Giappone! E’ il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo. Non c’è nessuno tra voi che desideri morire per sbattere il proprio corpo contro quella Costituzione che ha evirato il Giappone? Se c’è, che sorga e muoia con noi! Abbiamo intrapreso questa azione spinti dall’ardente desiderio che voi, che avete uno spirito puro, possiate tornare ad essere veri uomini, veri samurai!” Altro che “scorie ideologiche” – come ha scritto “La Repubblica”.

Si trattava dell’epilogo di un percorso spirituale nel quale letteratura, politica, visione della vita e del mondo erano arrivate a sintesi, attraverso un rituale ormai incomprensibile ai più, sconcertante per il mondo occidentale, criminale per l’ormai “civilizzato” Impero del Sol Levante, votato al quieto vivere democratico e al produttivismo capitalista.
Un anno prima, il 13 maggio 1969, Mishima, invitato a parlare ad un’assemblea all’Università di Tokyo dagli studenti di estrema sinistra, aveva esaltato il valore del gesto, della coerenza e della Tradizione, accusando i giovani di non credere a sufficienza in quello per cui si battevano e sfidandoli al grido: “In nome del passato, abbasso l’avvenire”.
Nella rappresentazione dell’equilibrio tra il Crisantemo e la Spada (l’Arte e l’Azione guerriera) , fissati nella tetralogia “Il mare della fertilità”, lo scrittore aveva visto una possibile via d’uscita dal deserto esistenziale, rappresentato dalla modernità, per la società nipponica del Ventesimo secolo. Coerente fino al sacrificio supremo, Mishima era però tutt’altro che rinchiuso in una dimensione “provinciale” e marginale. La sua sterminata produzione letteraria ne è il sigillo.

Nel 2006 la Mondadori ha pubblicato, nella prestigiosa collana I Meridiani, in due corposi volumi, i suoi romanzi più significativi, consacrandolo nel nostro Paese come uno degli scrittori più importanti del Novecento. Maria Orsi, nell’introduzione all’opera, afferma che Mishima “rappresenta la tradizione giapponese più autentica”. Ma nello stesso tempo riconosce che è anche lo scrittore più moderno del suo Paese che ha saputo conciliare la sua anima orientale con l’assimilazione della cultura occidentale, “fino a farne parte integrante del proprio messaggio poetico”.
Interprete di una tradizione universale, il suo stile può essere compreso anche dagli europei, dalla cui cultura letteraria ha imparato molto, soprattutto “frequentando” d’Annunzio e Huysmans, Dostoevskij e Mann, Wilde e Baudelaire, ma anche Radiguet e Nietzsche.
Se fosse rimasto in vita, appagato, fino ad invecchiare, dei suoi successi letterari, Mishina avrebbe probabilmente ottenuto il Premio Nobel. In morte, lo ricordiamo, nel centenario della nascita, con una sua frase emblematica che dà il senso della sua scelta definitiva: “Il valore di un uomo si rivela nell’istante in cui la vita si confronta con la morte”. Il valore di Mishima, il senso del suo esempio e della sua esistenza, su cui interrogarsi, senza revisionismi d’accatto, sta tutto qui.

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *