L’intervista. Orsina: “La verità dietro lo spauracchio delle tecnodestre? Una sinistra al rallentatore…”

12 Gen 2025 7:30 - di Alice Carrazza

Nel panorama politico italiano ed europeo, il dibattito sulle cosiddette “tecnodestre” sta monopolizzando l’attenzione, alimentato da una sinistra in cerca di nuove “ossessioni” e spauracchi. Ma quanto c’è di vero dietro questa etichetta, e quanto è invece una reazione al vuoto strategico davanti alla vittoria di Donald Trump e di Elon Musk? Giovanni Orsina – storico e politologo e Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss – ci offre una chiave di lettura come sempre lucida e senza filtri.

Il termine “tecnodestre” è una nuova, concreta, categoria politica o una costruzione della sinistra per mascherare la propria crisi di idee?

«È un termine recente e, a mio avviso, congiunturale, emerso con la discesa in campo di Elon Musk a sostegno di Donald Trump. Questo è significativo, perché il mondo da cui proviene Musk è stato per lungo tempo associato al progressismo. Molti tycoon delle big tech hanno sostenuto apertamente idee progressiste, incarnando un tecno-utopismo che vedeva la tecnologia come strumento di liberazione e progresso sociale».

Poi è arrivato lo strano ticket: Trump-Musk…

«La novità di oggi è che questa narrativa è stata scossa: Musk, pur non essendo un conservatore nel senso tradizionale, rappresenta una figura di rottura rispetto a quel contesto. Il rapporto emergente tra il mondo tecnologico e le destre politiche è ancora in fase di definizione. Certamente, il termine “tecnodestre” è un’etichetta polemica usata in modo strumentale, ma rispecchia una realtà in evoluzione che dovremo osservare con attenzione».

La sinistra, storicamente legata al progresso, ora sembra demonizzare l’approccio tecnologico. Perché?

«In parte per ragioni profonde, in parte per polemica politica. Negli anni ’90 prevaleva, a sinistra ma anche a destra, un convinto ottimismo tecnologico: riviste come Wired, considerate bibbie della futurologia, veicolavano l’idea che internet e la tecnologia avrebbero ampliato soltanto in positivo gli orizzonti dell’umanità. Oggi siamo più consapevoli della natura ambivalente della tecnologia — non diversa, in questo, da qualsiasi altro strumento. Questo cambio di prospettiva si è poi sommato con il fattore politico: l’alleanza tra Musk e Trump ha politicizzato la questione. Tuttavia, il problema del rapporto tra big tech e potere politico esisteva già. Con Musk, semplicemente, ha assunto un profilo più evidente».

La propaganda progressista accoglieva a braccia aperte le big tech – insieme alle loro “agende” – quando erano alleate. Ora che la narrativa è cambiata, come si posizionano?

«Il problema delle interferenze tecnologiche nella politica c’è da almeno un paio di decenni. Quello delle interferenze dei centri di potere imprenditoriali c’è da sempre. Giorgia Meloni ha avuto gioco fin troppo facile, in conferenza stampa, nel dire: “Se andava bene Soros, perché non va bene Musk?”. Poi, è vero pure che Musk pone dei problemi aggiuntivi, e non da poco: l’incarico nell’amministrazione Trump, la proprietà di un social network, la forza preponderante in un settore cruciale per la sicurezza come quello delle comunicazioni satellitari. Però svegliarsi adesso e fingere che il problema non ci sia mai stato, francamente, è piuttosto ridicolo. Il che non vuol dire, sia chiaro, che il problema non ci sia e che non debba essere affrontato».

In questo contesto in mutazione la sinistra italiana può ancora offrire un’alternativa credibile alle destre? Può ancora comunicare al proprio elettorato e trovare spazio sui social?

«I social media, oggi centrali nella comunicazione politica, non sono media tradizionali, non c’è un editore che imponga una linea. Sono spazi plasmati dagli utenti, e quindi possono utilizzarli tutti — anche se è vero che algoritmi e moderazione dei contenuti pongono questioni rilevanti. Tuttavia, ridurre la questione alla popolarità sulle piattaforme digitali è un errore: il problema principale, a sinistra, non mi pare sia come si comunica, ma che cosa si comunica. O, meglio ancora, sia la capacità di adeguarsi al clima storico. Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca, la fine della stagione individualistica apertasi negli anni ’60. A destra, soprattutto grazie ai cosiddetti populisti — un termine troppo flessibile, vago, e connotato negativamente —, sono emerse nuove forze politiche molto più adatte al nuovo clima. Partiti che hanno saputo riformulare il proprio linguaggio e proporre soluzioni congruenti con le nuove sensibilità dell’opinione pubblica. Anche a sinistra sono emerse nuove forze politiche, ma meno forti e meno efficaci. Di conseguenza, su quel versante non solo si fatica a costruire una narrativa allineata ai mutamenti sociali, ma si soffre di una profonda crisi di contenuti. C’è moltissimo lavoro da fare».

Giorgia Meloni sta guidando il riposizionamento dell’Italia nello scacchiere internazionale: ormai lo riconoscono anche i critici. Quali sono le ragioni di questo successo?

«L’Italia ha anticipato il cambiamento storico. Il nostro Paese ha iniziato un percorso di ridefinizione del quadro politico già nel 2013, con l’avanzata del Movimento 5 Stelle, tre anni prima di quel fatale 2016 in cui si tennero il referendum su Brexit e la prima elezione di Trump. Questo ha permesso alla destra italiana di stabilizzarsi precocemente in una forma adeguata ai tempi, passando dall’egemonia berlusconiana a quella meloniana, con un breve intermezzo salviniano. Oggi l’Italia si distingue per avere un governo stabile e una leader che, anche a prescindere dalle innegabili capacità personali, è pienamente in sintonia con il proprio tempo. La foto del G7 lo testimonia: a pochi mesi di distanza, Meloni spicca come l’unica leader politicamente in salute, mentre gli altri sono usciti di scena o, come Macron, sono “anatre zoppe”. E lo testimonia la rielezione di Donald Trump: segno di un vento globale di destra sul quale la presidente del Consiglio ha scommesso, col senno di poi, giustamente. Questo non vuol dire che tutto vada bene, o che non ci sia nell’evoluzione del quadro internazionale niente di cui preoccuparsi. Al contrario, c’è molto di cui preoccuparsi. Ma come direbbe Monsieur de La Palice: meglio affrontare tutto questo con un governo stabile e un leader adeguato al proprio tempo, piuttosto che con un sistema politico sconvolto e guidato da leader ancorati a un passato ormai tramontato o proiettati verso un futuro irrealizzabile».

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