Oggi Prodi fa il sincero patriota anti-Musk, ma nel 2006 regalò le industrie italiane a Pechino
Non poteva mancare all’appello dei ‘sinceri democratici”, dei sovranisti dell’ultima ora, preoccupati per le ingerenze di Elon Musk sugli affari italiani, ossessionati dal rapporto del patron di Tesla con la premier Meloni, pericolosamente “subalterna” agli Usa. Con un po’ di ritardo ma con l’autorità del vecchio saggio, arriva anche Romano Prodi. L’inventore dell’Ulivo, che di tanto in tanto torna sulla scena per fustigare questo o quello, non rinuncia a puntare il ditino contro la premier nel nome, pensate un po’, della difesa nazionale. E contro Ursula von der Leyen colpevole di assistere in silenzio allo scandalo della ‘svendita’ al supermiliardario, mostrificato dalle opposizioni e dai “giornaloni”. Che ieri, nel corso della conferenza stampa di fine anno, hanno rivolto alla premier sei domande fotocopia su Musk e il dossier Starlink.
Anche Prodi contro Musk-Meloni nel nome della tutela nazionale
Nel mirino prodiano la “pericolosa obbedienza italiana” a quello che Matteo Renzi definisce un “genio pericoloso” (e che al 60% degli italiani non fa paura). “Su Starlink”, dice l’ex presidente dell’Iri, “l’accordo col governo darebbe in mano a Musk tutti i dati che riguardano il nostro Paese. È il momento che il governo decida se dare in mano ad altri la propria vita. Il vantaggio di Musk è che ha a disposizione una tecnologia pronta e potente”. Anche Prodi intona la stanca litanìa della cessione di sovranità, “dare in mano la vita”, dimenticandosi (forse per l’età) le sue performance di quando sedeva a palazzo Chigi. “Non so se il governo firmerà. Ma queste cose vanno fatte con una prudenza enorme e garanzie, che non credo il nostro esecutivo sia in grado di ottenere. Così come sembrano essere le cose, io non firmerei”.
“Non so se il governo firmerà, ma serve prudenza”
Eccolo il consiglio del veterano progressista alla ingenua Meloni. “E l’idea che il rappresentante di uno Stato come è Musk si impadronisca di una realtà fondamentale di un altro Paese è un rischio enorme per la democrazia”. E giù lacrime per il rischio totalitarismo alle porte, il controllo digitale delle masse, la tecnocrazia della destra. Ma Prodi se la prende anche con Bruxelles. “Von der Leyen non dice niente delle interferenze di Trump in Germania, in Gran Bretagna, in Italia. Il sovranismo si ferma all’obbedienza”.
Ma fu Prodi a firmare il primo patto scellerato con la Cina
A confrontare l’afflato nazionalista di oggi con i trascorsi politici viene il sospetto che Romano Prodi non brilli per sincerità e coerenza. A memoria non risulta che il Professore bolognese abbia brillato nella difesa della sovranità italiana mettendo al riparo la nazione dalle mire straniere. Tutt’altro. Non lo ha fatto con la Francia. Non lo ha fatto con Pechino. Il primo accordo bilaterale sullo scambio tecnologico tra Italia e Cina risale al 2006 e porta la firma dell’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema ministro degli Esteri del governo Prodi. È stato il Professore bolognese a favorire l’invasione della tecnologia di Pechino nel nostro Paese. Mister Prodi non ha brillato per tutela degli interessi nazionali neppure da commissario europeo. Da presidente dell’Iria a privatizzatore e mercatista Prodi è stato uno dei fautori dell’indebolimento economico italiano.
L’improvvida apertura al commercio con Pechino, cresciuto del 700%
Chi ha spalancato le porte alla Cina mettendo a rischio la nostra economia con gravissime ripercussioni geopolitiche non può fare la morale alla premier accusandola di “svendere l’Italia” al tandem Musk-Trump. Vale la pena ricordare che nei primi anni del Duemila, il commercio con la Cina è aumentato del 700% provocando l’agonia e la morte di molte aziende italiane, fiore all’occhiello del made in Italy e ossatura della nostra produzione. Un corto circuito frutto dell’ingresso di Pechino nel Wto. I risultati di quella ‘geniale’ virata verso il Gigante asiatico sono sotto gli occhi di tutti. Oggi Prodi, lontano dal rivedere i suoi passi, magari adombrando un briciolo di autocritica, non trova di meglio che fare le pulci al governo nel nome di un “patriottismo” che non appartiene alla sua storia né a quella della sinistra.