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La sfida di Giuseppe Dipasquale: rileggere “Il Male oscuro” dell’imperdonabile Giuseppe Berto

Teatro

La sfida di Giuseppe Dipasquale: rileggere “Il Male oscuro” dell’imperdonabile Giuseppe Berto

Dal capolavoro dello scrittore veneto giunge, a distanza di sessant'anni, l'intensa riduzione teatrale. Al centro il "male" che affligge l’uomo occidentale: con il quale la vera sfida è riuscire a convivere

Cultura - di Fernando Massimo Adonia - 17 Febbraio 2025 alle 16:27

La domanda da farsi è se non sia proprio questo il momento storico per riprendere in mano l’opera di Giuseppe Berto e comprenderla come non era mai accaduto prima. Giuseppe Dipasquale, regista teatrale con alle spalle una lunga e proficua collaborazione con Andrea Camilleri, ha rotto gli indugi e riletto Il male oscuro, il romanzo certamente più frequentato dello scrittore veneto scomparso nel 1978.

Mario Monicelli, con Giancarlo Giannini protagonista, lo aveva portato sul grande schermo vincendo il David di Donatello, nel 1990, per la miglior regia. Mancava però la riduzione teatrale di un romanzo complesso e che affronta un tema, quello della depressione, che nel 1964 si aveva difficoltà a definire con precisione scientifica. Allora si parlava, semmai, del «male oscuro»: una dicitura sfumata, partorita da Carlo Emilio Gadda e che Berto sdoganò e impose al grande pubblico non senza suscitare incomprensioni. Anche per questo, il romanzo ebbe una vicenda complicata, segnata da più di un rifiuto. Rizzoli, invece, intuì la forza di quelle pagine. La conferma arrivò con la vittoria immediata dei premi Viareggio e Campiello.

Giuseppe Berto soffriva anche lui del male oscuro, una malattia che ha oggi dimensioni pandemiche. Dipasquale ne è convinto e ce lo spiega tra una pausa e l’altra delle prove. Dopo l’esordio al Biondo di Palermo, è attualmente in scena allo Stabile di Catania; a fine mese ci sarà il trasloco a L’Aquila. Protagonista è il più che convincente Alessio Vassallo, accompagnato da Ninni Bruschetta, impegnato nel duplice e difficile ruolo di padre e psicanalista di Bepi.

La scelta di Dipasquale, ardita e allo stesso tempo riuscita, è quella di ricapitolare le vicende del romanzo entro una seduta terapeutica particolarmente estesa, nella quale il rapporto e i conflitti con la figura paterna sono passati ai raggi x assieme al senso di colpa per non aver accompagnato il padre nel momento del trapasso. “La depressione – ci dice – è il male del secolo, anche se tendiamo a non ammetterlo. Un male cosmico, sociale, non soltanto personale e comportamentale”.

Un male che affligge in particolare l’uomo occidentale.Certamente, il contadino della Papuasia non sa cosa sia la depressione” insiste Dipasquale. “È l’inserimento nella prigione contemporanea a determinare tutto questo”. Il dramma teatrale non si risolve però nell’elogio della psicanalisi, disciplina rispetto alla quale Berto nutriva un certo grado di scetticismo. Nel finale, infatti, non arriva alcuna guarigione, neanche la morte. C’è semmai un passaggio, una trasformazione: la convivenza con la depressione nell’inedito rapporto visuale con la terra del padre: la Sicilia. La Sicilia del mito.

Forse è tempo di rileggere Berto andando oltre il pregiudizio di quell’intellighenzia che non gli ha mai perdonato la scelta di non aver mai voluto risolvere l’esperienza fascista nell’antifascismo, optando invece in un impolitico e personale a-fascismo. «Non si può fare gravare su menti così eccelse un riferimento politico, qualunque esso sia, a danno di quella che è la qualità artistica espressa» avverte Dipasquale. «Sarebbe una strumentalizzazione assolutamente miope». E ci congeda: «Non scordiamoci che fu inviso sia a quelli di destra che a quelli di sinistra».

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di Fernando Massimo Adonia - 17 Febbraio 2025