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L'intervista
Calderone: «Io, figlia e nipote di esuli, provo dolore per la storia negata: l’unica colpa era essere italiani»
Il ministro del Lavoro parla di occupazione e nuovo patto sociale. Ma racconta anche le sue memorie familiari sulle violenze titine: «La politica non c’entrava, mio nonno era socialista»
Ci sono i dati sull’occupazione, la «svolta culturale» che ha rimesso al centro le politiche attive dopo gli anni scellerati dell’assistenzialismo, le riflessioni sulla necessità di rifondare i rapporti all’interno del mondo del lavoro, mettendo da parte «la strumentalizzazione politica». C’è, insomma, in questa intervista con Marina Calderone quello che ci si aspetta dal ministro del Lavoro. Epperò, c’è anche altro: ci sono anche le memorie familiari di una figlia e nipote di esuli, che in questa settimana del Giorno del Ricordo ha dovuto assistere, con un «dolore intimo», agli oltraggi alla memoria di quegli italiani che vissero una pagina così dolorosa della nostra storia nazionale. «La politica non c’entrava, mio nonno era socialista ed è sempre stato socialista. L’unica colpa era di essere italiano», dice al Secolo Calderone, con parole che azzerano tutte le letture riduzioniste che ancora circolano.
Ministro, il 10 febbraio lei ha rivelato che sua madre è nata ad Arsia, vicino Pola. Che memorie familiari ha dell’esodo e delle violenze titine?
«La famiglia di mia madre è veneta. I miei nonni si trasferirono ad Arsia subito dopo le bonifiche, per lavorare in miniera. Si sposarono nella Chiesa di Santa Barbara, che è ancora lì al centro del borgo, con il suo stile italiano un po’ razionalista e un po’ a forma di galleria mineraria. Mia mamma è nata ad Arsia nel 1940. I miei nonni sarebbero rimasti lì per sempre, ma mia nonna e mia madre furono costrette a scappare di notte, di nascosto, in treno, facendo ritorno in Veneto: era scattata la caccia all’italiano. La politica non c’entrava, mio nonno era socialista ed è sempre stato socialista. L’unica colpa era di essere italiano. È stato un dramma vero, mia nonna ha raccontato quel suo viaggio della paura fino alla fine dei suoi giorni. Mia madre ha dovuto combattere tutta la vita con la burocrazia italiana e croata, perché risultava nata all’estero. Ma lei è nata in Italia! Pensi che l’anagrafe italiana in Istria e Dalmazia fu completamente distrutta, cancellata. Una violenza che ha avuto conseguenze per decenni».
Che effetto le hanno fatto gli oltraggi alla memoria che hanno segnato questo 10 febbraio?
«È un dolore intimo. Perché significa negare la storia. E non parlo solo della grande storia, del dramma degli esuli giuliano-dalmati, dell’esodo degli italiani da terre italiane da sempre. Parlo di una storia familiare, di una storia che mia nonna ha sempre raccontato e che poi – quando sono diventata grande – ho potuto vedere, sentire e capire da sola. Ecco l’oltraggio ai martiri delle foibe è una coltellata alle spalle delle famiglie che hanno vissuto questo dramma e che ne hanno poi pagato le conseguenze per decenni. Fino a pochi anni fa, si negava addirittura l’esistenza degli esuli, delle foibe, delle violenze titine. Grazie alla legge che istituisce il 10 febbraio come giornata del ricordo, questa ferita è stata rimarginata. Purtroppo, non ancora del tutto».
In occasione del congresso della Cisl il premier ha parlato della legge sulla Partecipazione come occasione per rifondare i rapporti all’interno del mondo del lavoro e della necessità di superare una certa «visione tossica conflittuale». Questa frase in particolare ha suscitato alcune polemiche, secondo lei perché ci sono resistenze?
«Ci sono legittime ambizioni e aspirazioni politiche, di carattere personale, che spingono però a posizioni incomprensibili. Come può un sindacato essere contrario alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese? La verità è che la proposta della Cisl ha fatto centro, ha raccolto 400.000 firme in pochi mesi, la maggioranza l’ha sostenuta e qualcun altro è andato in difficoltà. Stiamo parlando dell’applicazione dell’articolo 46 della Costituzione. La strumentalizzazione politica dovrebbe fare un passo indietro. E invece…».
È per questo che la Cgil è contraria e il Pd ha votato contro alla Camera, dove il testo ha ottenuto un primo sì che molti hanno definito «storico»?
«Esatto. Io capisco l’imbarazzo delle opposizioni, che sono divise anche su questo tema, mentre ho molto apprezzato l’intervento di Luigi Sbarra che ha chiesto ai parlamentari un sostegno bipartisan alla proposta di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione. Il testo è un buon compromesso, si sancisce un principio, di derivazione costituzionale, la cui applicazione si attende dal 1948. E non a caso sarà realizzato da una maggioranza di centrodestra e da un presidente del Consiglio di destra».
I dati Ocse rilasciati a gennaio parlano di un’occupazione al 62,5%, mai così alta, e di una disoccupazione al 6,2%, sotto la media della zona euro. Quali sono state a suo avviso le misure che maggiormente hanno contribuito a raggiungere questi risultati e cosa c’è ancora da fare?
«Noi abbiamo capovolto il paradigma precedente: è più conveniente lavorare che prendere un sussidio. Ci siamo mossi su questa direttrice e i risultati ci hanno premiato. La Bce ha detto che l’Italia è la migliore nazione d’Europa per quanto riguarda la riduzione della disoccupazione. Di riduzione del cuneo fiscale ne parlava Romano Prodi quando era premier, noi lo abbiamo fatto. Abbiamo incentivato i premi di produttività, la contrattazione di secondo livello e il welfare aziendale. Stiamo puntando sulla formazione di qualità, fino al 10 aprile è possibile presentare le domande per accedere al Fondo nuove competenze e la piattaforma SIISL è stata aperta a tutti. Ma soprattutto la stragrande maggioranza dei nuovi posti di lavoro è a tempo indeterminato. Altro che precariato».
La cito: «La Repubblica è fondata sul lavoro, non sul sussidio» e, ancora, «Io sono il ministro del Lavoro, non della cassa integrazione». Quanto ha contribuito ai risultati ottenuti quel capovolgimento del paradigma di cui ha parlato e che ha portato, per esempio, all’abolizione del Reddito di cittadinanza?
«La svolta è stata proprio di natura culturale. Quello era il mandato affidatomi da Giorgia Meloni, quando mi ha voluto come ministro del Lavoro, e quello abbiamo fatto. Mi ha colpito molto il dato Inps sull’assegno di inclusione e il supporto alla formazione lavoro, i due strumenti che hanno sostituito il Reddito di cittadinanza: il 26% degli ex percettori del reddito di cittadinanza nel 2023, nel 2024 ha trovato lavoro. Il 25% degli ex percettori non ha richiesto il nuovo sussidio. Il 15% ha ricevuto un diniego, anche perché nel frattempo in tanti avevano trovato lavoro. Questi numeri vorranno dire qualcosa…».
L’opposizione conduce due battaglie che suonano molto accattivanti: salario minimo e riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio. Il governo è contrario. Perché?
«Da un punto di vista comunicativo funzionano perché sono di semplice comprensione. Ma sono due strumenti dirigisti che di fatto espropriano le parti sociali, depauperano la contrattazione collettiva e non risolvono i problemi. E non lo dice il ministro Calderone, ma lo ha detto anche la neo segretaria generale della Cisl, Daniela Fumarola, alla quale vanno i miei migliori auguri di buon lavoro. Insomma, non si risolvono i problemi dei lavoratori con gli slogan. Viene poi da chiedersi come mai queste misure così strillate non siano state approvate nei 10 anni in cui al governo sono stati ininterrottamente coloro che oggi sono all’opposizione. Forse non ci credevano nemmeno loro…».