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Il riconoscimento
Palazzo Chigi e il Giorno del Ricordo: le medaglie agli eredi dei Martiri delle Foibe
Mantovano: "Le vostre lacrime sono le nostre, le vostre storie sono le nostre storie. Italiani prima per nascita poi per scelta"
La solennità della giornata e la cornice di Palazzo Chigi. Il silenzio carico di memoria, le parole che squarciano decenni di oblio, i nomi che riemergono dalla storia per essere finalmente riconosciuti. È qui che si è svolta la cerimonia del Giorno del Ricordo, istituito con la legge 30 marzo 2004 n. 92, per onorare le vittime delle Foibe e l’esodo giuliano-dalmata. Un evento che, come ha sottolineato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, è qualcosa di più di una celebrazione istituzionale: è il risarcimento morale di una nazione che, troppo a lungo, ha lasciato ai margini i suoi figli martoriati.
Mantovano: “Le vostre lacrime, le vostre storie sono le nostre”
«Ringrazio tutti voi per essere presenti qui in questa sala. Considero un onore presiedere oggi la cerimonia di consegna delle onorificenze», ha esordito Mantovano. E ha poi ricordato come, fin dall’entrata in vigore della legge, una commissione governativa abbia vagliato le richieste dei congiunti delle vittime. «Le cerimonie si sono svolte talora al Quirinale, talora alla Camera o al Senato, ma dallo scorso anno la presidente Meloni ha voluto come cornice Palazzo Chigi», ha spiegato. «Non è una semplice scelta di protocollo» è il segno di una precisa volontà politica, di un’attenzione costante del governo.
Ogni diploma che viene consegnato porta due nomi: quello di chi fu inghiottito dalle Foibe o scomparve nel nulla, e quello del congiunto che oggi riceve l’onorificenza a suo nome. «Ciascuno di quei nomi racchiude una storia, una storia di profondo dolore. Sfogliare idealmente questo album di famiglia significa rendersi conto che «il ricordo è vivo» ha proseguito Mantovano. «Quello che è successo ai vostri familiari e ai nostri connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia non è la storia di un piccola porzione di confine dimenticato: è il patrimonio dell’intera nazione. I vostri ricordi sono i nostri, le vostre lacrime sono le nostre, le vostre storie sono le nostre storie».
Italiani due volte
In un passaggio dal forte valore simbolico, il sottosegretario ha rievocato la vicenda di monsignor Ugo Camuzzo, ultimo vescovo di Fiume italiana, che per sfuggire alla polizia politica jugoslava tagliò la bandiera tricolore in tre pezzi: con la parte verde avvolse il calice, con la parte bianca un Vangelo, con la parte rossa l’intera Sacra Scrittura. Arrivato in Italia, ricompose il tricolore. Fu sepolto con quella bandiera sul cuore.
E poi Marinella, un anno di vita, morta di freddo in una baracca del centro profughi di Padriciano. Giuseppe Cernacacca, impiegato comunale istriano, lapidato, decapitato e gettato tra le rotaie per aver avuto la sola colpa di essere italiano. Storie che oggi il governo restituisce alla memoria collettiva con un’azione chiara: il Treno del Ricordo, che ripercorrerà il viaggio degli esuli, partirà da Trieste per toccare sette tappe, concludendosi in Sardegna. Oggi, a 21 anni dalla legge, quella congiura del silenzio è stata spezzata. Se ne parla nelle scuole, nei film, nei libri, nelle conferenze, come racconta Mantovano.
La testimonianza di Abdon Pamich
A dare voce a quel dolore è stato Abdon Pamich, esule fiumano, leggenda dell’atletica italiana. «Ricordare è come agitare un pugnale in una ferita sempre aperta», ha esordito. E ha raccontato la sua storia e quella del fratello Giovanni, due ragazzini di 13 e 14 anni che una notte di settembre del 1947 decisero di fuggire. «Eravamo maturi per la nostra età. Avevamo visto cadaveri macerati per le strade, esecuzioni sommarie. Fiume era una città che amava vivere, dove la gente cantava nelle osterie, si radunava nei caffè. Poi d’improvviso, il silenzio. Quando entrarono i titini, le strade erano vuote. La gente guardava da dietro le persiane, sbarrata in casa».
E così presero un treno, senza bagagli, con pochi spicci in tasca. Arrivarono a Trieste dopo 20 ore di viaggio per percorrere 60 chilometri. Poi Udine, poi Novara, poi Genova. L’arrivo nei campi profughi fu un’esperienza devastante. «Ci assegnarono una branda. Le cimici erano grandi come nocciole, abbiamo patito un freddo dell’inferno. A Novara mangiavamo riso e lenticchie tutti i giorni. Ancora oggi, quando sento l’odore di lenticchie, mi giro dall’altra parte».
E infine la nuova vita a Genova, tra diffidenza e pregiudizi. «In quella città molto rossa ci ritenevano dei fascisti. Secondo loro, eravamo scappati da un paradiso a cui loro aspiravano. Però dopo qualche anno ci siamo fatti conoscere, ci siamo ambientati. Noi siamo come degli alberi, le cui fronde dei nostri alberi sono state spazzate via dalla tempesta, ,a le radici rimangono sempre lì dove siamo nati».
L’onore ai Martiri: le medaglie e i nomi del giorno del ricordo
A chiudere la cerimonia, la consegna delle medaglie ai discendenti degli infoibati. Nome dopo nome, la storia è stata pronunciata ad alta voce, senza più omertà né reticenze. C’era Susanna Bino, nipote di Luigi Gherbassi, milite della difesa territoriale ucciso nel maggio 1945 senza processo. C’erano Graziella e Domenico La Torre, che hanno ricevuto la medaglia per il loro nonno, Domenico Bruno, carabiniere a Rovigno, prelevato dai partigiani jugoslavi perché si rifiutò di cedere la divisa e le armi. E ancora: Jacopo Labartino per Angelo Malatesta, Maria Teresa Rossato per Luigi Rossato, Sebastiano Serra e i suoi nipoti per Andrea Serra, Ugo Taucer per Santo Taucer.
Uomini spazzati via dalla furia titina, italiani due volte: per nascita e per scelta. La loro memoria, oggi, è stata restituita a chi rimane.