
La recensione
Il Gattopardo di Tom Shankland: un lavoro pregiato sulla rivoluzione (tradita) risorgimentale
Ogni tanto il Risorgimento torna di moda: ora è un romanzo, ora un film, ora – ma più di rado – un evento politico, ora una serie televisiva. E’ questo il caso del “Gattopardo” diretto da Tom Shankland per Netflix, dove a Kim Rossi Stuart, a Deva Cassel e a Saul Nanni tocca l’ingrato compito di sostituire, agli occhi del telespettatore di oggi, rispettivamente Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon. Per una volta, l’operazione di attingere da un capolavoro letterario per ricavarne una narrazione fedele, ma arricchita di eventi e di personaggi, sembra riuscita, grazie anche ai pregi formali che caratterizzano questo che una volta si sarebbe definito “sceneggiato”: cura estrema nei costumi, nei giochi di luce sia all’aperto che negli interni, aderenza della colonna sonora e, perché no? Recitazione degna di lode dei protagonisti e dei comprimari.
Il Gattopardo di Shankland è un lavoro pregiato
Tuttavia, il pregio più importante del lavoro di Shankland consiste nell’aver colto ed espresso il nocciolo del Gattopardo. Il periodo che siamo soliti definire “Risorgimento” presenta in realtà due facce: la prima guarda verso il “nuovo”, inteso soprattutto come società e costumi in evoluzione; la seconda è rivolta al passato, ora con quieta nostalgia, ora con rabbia. Certo, in tutte le attività creative è stato più facile raccontare la decadenza di un mondo, intanto per il fascino che esercita il crepuscolo e poi perché conosciamo quello che si perde, ma ignoriamo la realtà verso la quale procediamo. Qui ricordiamo alla spicciolata soltanto alcuni esempi illustri: da “I Vicerè” di Federico De Roberto a “La conquista del Sud” di Carlo Alianello, dal menzionato capolavoro di Visconti ai più recenti film di Mario Martone “Noi credevamo” e di Roberto Andò “L’abbaglio”, fino all’album “Brigante se more” di Eugenio Bennato e del suo gruppo Musicanova, dove si canta l’epopea stracciona dei sudditi fedeli al Borbone, che poi si diedero al brigantaggio (non diversamente da quanto avvenne alla fine della Guerra civile americana, con i Sudisti sconfitti in veste di banditi e insieme di oppositori al nuovo potere).
In tutti questi lavori, pur così diversi fra loro – anche nelle intenzioni degli autori – spira un’aria di delusione, di rimpianto per quel che poteva essere e non è stato e di amarezza per una rivoluzione tradita (del resto, il primo a provare un simile sentimento fu Garibaldi, fra i principali artefici del Risorgimento: lui repubblicano e socialista, fu costretto infatti ad accettare che la nuova Italia nascesse sotto le insegne della monarchia sabauda). E allora, sono delusi i familiari del Gattopardo, che vedono nelle nuove classi al potere la volgarità, la rapacità, l’arroganza, l’ambizione sfrenata (la stessa, scadente qualità umana che si ritrova ne “I Vicerè”); ma non sono da meno, sulla china della delusione, i rivoluzionari di “Noi credevamo”, destinati a una triste fine, dopo le illusioni – o le velleità? – di poter cambiare il mondo, a parer loro fatto solo di sopraffazioni, disuguaglianze e ingiustizie.
Alcune interpretazioni addolciscono le tragedie della storia
Non sono mancate le interpretazioni volte ad addolcire le tragedie della storia, come quella della commedia musicale “Rinaldo in campo”, rivisitazione sorridente dell’impresa dei Mille, che vide in stato di grazia un Domenico Modugno, con il duo quasi all’esordio “Franchi & Ingrassia”; o come il recente “L’abbaglio” di Salvo Andò, con il trio – già felicemente collaudato ne “La stranezza” – Servillo-Ficarra-Picone, che di quell’impresa fornisce una lettura picaresca. Ma tornando ai Mille e al crollo del regno borbonico raccontato ne “Il Gattopardo” di Shankland, ai nostri occhi un ulteriore pregio consiste nell’approccio storiografico – peraltro in linea con lo spirito dell’antecedente letterario – che, per una volta, si sottrae all’influenza della leggenda nera diffusa dai vincitori, secondo la quale il Regno delle due Sicilie fu una sorta d’inferno dove si negavano le libertà e si praticava l’ingiustizia a danno dei più deboli e dei dissidenti.
Questo però era soltanto un aspetto del dominio borbonico, che, se è vero che alternò bastone e carota nei confronti dei sudditi (si pensi alle famigerate “tre effe” festa, farina e forca), e anche vero che, da Carlo III a Ferdinando, quella corona fu protagonista di un processo di modernizzazione illustrato, fra l’altro, dall’inaugurazione della prima linea ferroviaria italiana e dalla realizzazione della Manifattura di San Leucio a Caserta, primo esempio di welfare, unitamente alla costruzione dell’Albergo dei Poveri a Napoli.
Ma non è questa la sede per ricordare i meriti di una dinastia – ma poi di un regime… – dove, come sempre, s’intrecciano positività e negatività. Resta il fatto che, a distanza di duecento anni, il popolo e la cultura d’Italia (ma “l’Italia non esiste, per non parlare degli Italiani”, come recita un saggio appena uscito di Fabrizio Rondolino) non hanno ancora raggiunto la maturità per riconoscersi in una memoria comune. E non solo riguardo al Risorgimento.