
Il “prigioniero” Alemanno: la sua reclusione grida alla nostra coscienza
Non riesco a non pensare a Gianni Alemanno. Lo faccio spesso. E ben prima della sua pubblica lettera dal carcere. Sicuramente, per inconsci motivi affettivi e politici che a destra si fondono nelle vite delle persone: scampoli strascicati di storia collettiva, anche quando non ci sono più rapporti politici da anni; neppure quelli personali, che si smarriscono con l’assenza di frequentazioni. L’uomo ha sbagliato nell’avere disobbedito a normative penitenziarie e prescrizioni magistratuali che – con una “crudeltà” risparmiata agli autori di crimini efferati – lo hanno portato dietro le sbarre alla vigilia di Capodanno.
Quel residuo del teorema di Mafia Capitale
La sua condanna, al tempo, mi sembrò il residuo “coatto” di un carico pesantissimo che poi la stessa magistratura è stata costretta a cancellare: il teorema di Mafia Capitale – la connection fascio-mafiosa che infangava non solo lui, ma tutta la storia della destra – é stata alla fine “giustiziato” dagli stessi giudici; un azzardo della Procura di Roma, allora guidata da Giuseppe Pignatone, il quale adesso è accusato in Sicilia di connivenza con imprenditori mafiosi: una sorta di contrappasso dantesco da cui spero esca intonso come il suo ex imputato. Quel “traffico di influenze” – un reato la cui portata desta perplessità in giuristi e non – mi è sempre apparso un quid residuo per continuare a “mascariare” il reo, dopo la caduta dello sfregio massimo; per non onorarlo di un giusto risarcimento pubblico dopo la lunga gogna subita. Bravo come ministro dell’Agricoltura – Massimo D’Alema lo definì “il migliore ministro del governo Berlusconi”- lo fu meno come sindaco di Roma; deluse molte aspettative, ma è molto rivalutato dal fatturato scadente del dopo: Marino, Raggi, Gualtieri sono nomi che fanno rizzare i capelli. Acqua passata: oggi Alemanno paga il “tragico” della sua identità; l’essersi votato, con incredibili ingenuità, a una vita pubblica spericolata, alla trasgressione permanente, a tutte le temerarietà: al bisogno di violare sempre il limes di scalate “impossibili”, fisiche e politiche; e umane: quello di ogni ragionevolezza e razionalità.
Una “fotografia” dolorosa che non può lasciare indifferenti
Chi gli vuol bene (e chi gli vuole male) lo sa così. Anche la lettera sulla condizione dei suoi compagni di detenzione è espressione di questa pulsione ad andare sempre e comunque “controcorrente”; impolitica, ma con una ragione, a differenza della decisione di fondare un Movimento, a destra della destra, a contestazione, illogico “dispetto” alla prima, storica, guida right del governo della Repubblica; la quale è anche metastorico symbolum per ogni generazione della destra, inclusa la sua. Una “rottura” che è (stato) un capitolo, triste e evitabile, di umani e reciproci risentimenti, di divisioni e separazioni: le inconfondibili stimmate del far politica sulla rive droite. Eppure, leader di successo a capo della destra sociale che affascinò e irretì tante donne e tanti uomini – molti giovani – del pianeta droite oggi mi appare soltanto una fotografia, umana e dolorosa, dell’album di famiglia della destra.
Ma Alemanno non ha ammazzato nessuno
La quale – io credo – non può restare indifferente al suo destino; che è così distante da quello dei “compagni che sbagliano” i quali, macchiati da orrendi delitti, “di là” sono perdonati, condonati, ascoltati, riabilitati, osannati: in aule universitarie, nell’editoria, dentro le redazioni. Gianni Alemanno non ha ammazzato e non ha fatto male a nessuno; e non è un disonesto. Ha sbagliato; tanto, certo, in nome di una dannazione che coincide col suo carattere: con la sua ostinazione a prendere a pugni persino i cicli politici ed esistenziali. Ma il suo carcere, la sua reclusione “giusta” – più unica che rara nel ceto politico – grida alla nostra coscienza; grida il suo essere manifesto di “summum ius, summa iniuria”.