
L'intervista
Malcotti (Ugl): «La partecipazione è un fatto epocale, proveranno a ostacolarla. Lavoreremo perché entri davvero nelle aziende»
Il Segretario organizzativo confederale dell'Ugl spiega perché c'è ancora più bisogno di sindacalismo nazionale: «Ci misuriamo con sfide terrificanti, non servono contrapposizioni aprioristiche e strumentali, ma la consapevolezza che ci giochiamo un destino comune»
Rafforzare la contrattazione, sostenere il percorso di applicazione della partecipazione e dare un forte «contributo di idee a questa stagione politica», che si trova ad affrontare sfide spesso «terrificanti». Il Segretario organizzativo confederale dell’Ugl, Luca Malcotti, parla con il Secolo del ruolo che la sua organizzazione può e deve svolgere in un momento in cui il sindacalismo nazionale rappresenta il principale antidoto a chi strumentalizza le istanze dei lavoratori per fini politici. Cosa diversa, sottolinea Malcotti, dal fatto che i sindacati confederali abbiano e non possano non avere una «visione politica». «L’identità dell’Ugl è fortemente e naturalmente radicata nella storia della destra politica italiana», chiarisce Malcotti, rivendicando «con orgoglio» anche i suoi anni di militanza politica.
Segretario, che lettura dà dell’andamento del mercato del lavoro in Italia?
«I dati degli ultimi anni ci indicano una situazione in netto miglioramento: nel 2024 ci sono stati 350mila occupati in più, abbiamo un tasso di occupazione al 62,2% e un tasso di disoccupazione al 6,5%, le percentuali migliori da decenni. Ma ancora più importanti sono dati come il numero di ore lavorate (+ 2,8 %) e il costo del lavoro (+ 3,4%), quest’ultimo effetto dei rinnovi contrattuali dell’ultimo periodo, al netto del taglio del cuneo fiscale. Gli altri dati significativi sono la crescita dei contratti nel centro-sud e dell’occupazione femminile. Storicamente la disoccupazione italiana ha una concentrazione territoriale e di genere e un segnale in controtendenza è fondamentale. Ovviamente c’è ancora moltissimo da fare e il lavoro povero è ancora una delle principali emergenze del Paese».
A proposito di lavoro povero, la sinistra ritiene che il problema si risolva con il salario minino, voi siete contrari. Perché?
«Perché la riteniamo una risposta sbagliata ad un problema reale: alzare le retribuzioni. Il salario minimo, come peraltro dice la Direttiva europea, è utile nei Paesi con un alto numero di lavoratori non coperti da contrattazione collettiva, ma in Italia abbiamo una copertura contrattuale pressoché totale e l’introduzione del salario minimo legale potrebbe addirittura peggiorare la condizione dei lavoratori, perché le imprese meno oneste sarebbero tentate di uscire dalla contrattazione collettiva».
E questo cosa comporterebbe?
«La perdita delle garanzie e delle indennità che sono previste dai contratti, che non sono fatti solo di tabelle salariali, con il risultato di attirare verso il basso i salari medi. Il rischio è che invece di alzare le retribuzioni di chi guadagna meno di 9 euro l’ora, si abbassi a 9 euro la paga di chi oggi guadagna di più».
Come si può affrontare il problema?
«Come giustamente ha indicato il Ministro del Lavoro Marina Calderone, rafforzando la contrattazione. Ad esempio, occorre introdurre un meccanismo di premialità e di penalizzazione sul rispetto dei tempi di rinnovo dei contratti. Non è possibile che vi siano contratti che hanno dovuto attendere per nove anni di essere rinnovati anche perché, quando alla fine si adeguano le tabelle retributive, è comunque impossibile recuperare per intero il potere d’acquisto perso in un lasso così lungo di tempo. L’altra priorità è contrastare il precariato, degenerazione della turbo-flessibilità: lavoro nero, lavoro grigio, part time involontario, eccessivo ricorso ai contratti a tempo determinato sono le cause di grande parte del lavoro povero».
La partecipazione, sulla quale è in dirittura d’arrivo una legge, può essere una risposta?
«Sì. Per il sindacalismo nazionale la partecipazione rappresenta la stella polare di una visione di modello economico e la portiamo scolpita nel nostro Dna e nel nostro Statuto, non solo come Ugl, ma fin dalla fondazione della Cisnal. Il fatto che il governo Meloni dia attuazione, dopo oltre 75 anni di attesa, all’articolo 46 della Costituzione è un fatto epocale del quale sono personalmente entusiasta. La partecipazione non è solo uno strumento di democrazia economica, ma è una scelta essenziale per correggere le storture della globalizzazione, della finanziarizzazione dell’economia e, sì, anche una risposta alla questione salariale. Contrariamente a quanto si può pensare, spesso le retribuzioni più basse non stanno nei settori in crisi o declino, ma in fondo alle filiere – si pensi alla logistica e al commercio elettronico – che producono utili stratosferici. La ripartizione degli utili è una risposta efficace a questa anomalia».
Però, anche su questo tema ci sono resistenze politiche e sindacali…
«I nemici della partecipazione sono sempre gli stessi e dobbiamo mettere in conto che troveremo l’ostilità della parte meno illuminata dell’imprenditoria e di una parte degli altri sindacati, a partire da Cgil e Uil. Ma noi diciamo “viva la partecipazione!”. Ritengo che il nostro compito, appena approvata la legge, debba essere quello di cercare di farla applicare nel maggior numero di aziende possibili. Sappiamo che non sarà facile».
Quale deve essere il rapporto tra il sindacato e la politica?
«Il sindacalismo confederale ha e deve avere una sua precisa identità e una visione politica, ma deve sempre rimanere ai fatti e giudicare le azioni della politica sul merito, senza adesioni o ostilità aprioristiche e acritiche. Non sempre è così. Per fare un esempio facile basterebbe segnalare che la Cgil si è ricordata di fare un referendum contro il Job Act, voluto dal governo Renzi nel 2015, solo nel 2023 con il governo Meloni. Credo che i referendum stiano facendo scarsamente breccia tra i lavoratori perché si percepisce la loro strumentalità politica».
Qual è la vostra visione politica?
«Il nostro metodo è quello che dicevo prima: rimaniamo sempre sul merito. E nelle nostre file ci sono lavoratori di qualsiasi credo politico, ma l’identità dell’Ugl è fortemente e naturalmente radicata nella storia della destra politica italiana. Siamo l’unico sindacato confederale che è stato da sempre, e che sempre sarà, collocato in quella metà campo».
Anche la sua identità è fortemente radicata a destra: lei ha una storia di militanza politica pregressa in comune con molti esponenti del governo…
«Sì, a cominciare dal Presidente del Consiglio, e ne sono molto orgoglioso. Siamo figli di una storia comune che è una bellissima avventura fatta di militanza, di servizio alla Nazione e di un’idea di Italia che il governo sta cercando di attuare, sotto la guida di Giorgia Meloni. Vedere tanti amici in posizioni chiave nel governo del Paese non è solo motivo di orgoglio, ma è soprattutto la base solidissima per collaborare a fare quanto di meglio per l’Italia, in particolare sul mondo del lavoro. La mia formazione politica mi fa dire che avere radici comuni è la premessa per avere un comune destino. In verità, credo che l’Ugl possa fare di più nel dare il proprio contributo di idee a questa stagione politica perché chi milita nella nostra organizzazione spesso non lo fa solo, come è normale, per tutelare i propri interessi e quelli dei propri colleghi ma perché si sente un lavoratore patriota».
Le prossime sfide?
«Credo che la sfida immediata sia dimostrare che si può fare la lotta al dumping contrattuale senza comprimere il pluralismo sindacale. Poi che sia necessario giungere a una misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e delle associazioni datoriali, senza cedere alle pressioni per blindare gli oligopoli della rappresentanza. Più in generale credo che un sindacato moderno possa essere un attore fondamentale per affrontare le sfide terrificanti che abbiamo di fronte: i nuovi assetti geopolitici planetari, l’economia globale e le nuove frontiere della tecnologia, a cominciare dall’intelligenza artificiale».