
A 50 anni dall'omicidio
Sergio Ramelli, ragazzo prima che simbolo: il libro di Culicchia restituisce l’umanità negata dall’odio
L'autore di "Uccidere un fascista" racconta al lettore la vita di un 18enne che aveva una fidanzata, una famiglia, una passione per il calcio, non solo per la politica. In questa dimensione di normalità si comprende fino in fondo la brutalità del suo assassinio
Sono passati cinquant’anni dalla morte di Sergio Ramelli, giovane militante del Fronte della Gioventù ucciso a Milano da un commando di Avanguardia Operaia con colpi di chiave inglese sulla testa. Per ricordare la sua storia, tra le tante iniziative che in questi giorni si stanno susseguendo, c’è la pubblicazione di una serie di volumi a lui dedicati. Uno di essi è Uccidere un fascista. Sergio Ramelli: una vita spezzata dall’odio (Mondadori) di Giuseppe Culicchia, che chiude la trilogia che lo scrittore ha dedicato agli anni di Piombo. Il libro, infatti, arriva dopo i due dedicati a Walter Alasia, brigatista rosso cugino dell’autore.
Un libro «per non perdere la memoria»
“Noi siamo un Paese senza memoria, il che equivale a dire senza storia”. Culicchia mette questa frase di Pierpaolo Pasolini all’inizio del suo libro dedicato a Sergio per spiegare la molla che lo ha spinto a scriverlo. Ed aggiunge di suo: “Raccontare queste storie è stato il mio tentativo di non perderne la memoria. Anche questo come i precedenti sarà molto probabilmente un libro divisivo, perché divisivi sono i simboli. Ma Sergio Ramelli è stato un ragazzo, prima di diventare un simbolo. E io ho cercato di restituirgli la sua umanità”.
Sergio Ramelli, il «ragazzo prima del simbolo»
E ci è riuscito perfettamente, non solo perché ha utilizzato un linguaggio ed un approccio narrativo particolarmente coinvolgenti (scrive, infatti, rivolgendosi a Sergio in prima persona, come in un dialogo con quel ragazzo appena diciottenne a cui è stata strappata la vita) ma anche perché dimostra, accostandosi ad una storia particolarmente drammatica e dolorosa, una grande sensibilità. Ed anche una per nulla scontata onestà intellettuale nel riconoscere responsabilità e denunciare il clima di odio di quegli anni in cui a sinistra si gridava (e si metteva in pratica) lo slogan “uccidere un fascista non è reato”.
Gli strascichi dell’antifascismo militante: un odio che stenta a passare
Erano gli anni dell’antifascismo militante, anni che ancora qualcuno insiste nel definire “formidabili”. Anni i cui strascichi sembrano voler contaminare anche la nostra quotidianità: a riprova di tutto questo, tra le altre cose, lo sfregio a Sergio denunciato sui social dallo stesso scrittore di cui anche il Secolo d’Italia ha dato notizia: in una libreria Feltrinelli di Milano, il libro, con la fotografia di Ramelli in copertina, appare rovesciato.
«Chi era davvero Sergio?»
Nel ripercorrere la storia del diciottenne milanese dai capelli lunghi, Culicchia parte da alcune domande “Chi era davvero Sergio Ramelli? Un picchiatore, com’è stato definito da coloro che cercano di giustificare i suoi aggressori? O uno studente come tanti che però aveva idee differenti da quelle della maggioranza dei suoi coetanei?”. Le risposte emergono evidenti pagina dopo pagina, inserite nel contesto violento degli anni di Piombo che Culicchia tratteggia nei particolari con completezza e correttezza, non tralasciando nulla e coinvolgendo, immaginando di farli parlare direttamente, i luoghi in cui sono avvenuti alcuni degli episodi principali di quel difficilissimo e sanguinoso periodo.
Oltre la politica: la passione per il calcio, la fidanzata, le giornate in famiglia
L’autore dunque racconta la vita di Sergio, la sua passione per il calcio, la sua storia d’amore e le sue giornate in famiglia. Poi la scelta di aderire al Fronte della Gioventù, l’impegno politico e ideale ma senza in alcun modo farsi coinvolgere dalla violenza. E la decisione, coerente e libera, di criticare le Brigate Rosse e la mancanza di unanime condanna dei loro primi omicidi: quelli di Mazzola e Giralucci, commessi a Padova nella locale sede del Movimento Sociale. “Quella mattina a scuola, seduto al tuo banco, avvicinasti la penna al foglio e iniziasti a scrivere il tuo tema, senza sapere che quelle parole sarebbero state la tua condanna a morte”, scrive Culicchia. E ancora: “Mettersi due metri indietro e così facendo, salvare la pelle. Ci riflettesti? Certo non potevi immaginare che il tuo tema sarebbe stato reso pubblico. Ma per quanto ho potuto capire di te, lo avresti scritto lo stesso. Non per provocazione, ma perché non scrivere ciò che pensavi sarebbe equivalso a tradire ciò in cui credevi e dunque a tradire te stesso”.
Il tema sulle Br e quella sentenza: «Questo lo scrive un fascista»
Il tema del giovane militante del Fronte della Gioventù, “finito nelle mani del collettivo della sua scuola, era stato affisso in bacheca con la scritta ‘Questo è il tema di un fascista’. E da quel momento Sergio Ramelli era stato ripetutamente oggetto di minacce e violenze. Fino all’agguato fatale”. Operato, ricorda l’autore, da otto persone che quel ragazzo dai capelli lunghi nemmeno lo conoscevano. Per loro era semplicemente “un fascista”. E quindi meritava quei colpi in testa, inferti proprio lì, quasi a volerne cancellare le idee. I responsabili di tale infimo atto d’odio sono rimasti ignoti per dieci anni, coperti dall’omertà di un mondo che nella maggior parte dei casi la pensava come loro. Poi però, grazie anche all’impegno di due magistrati che hanno messo al primo posto la giustizia, sono stati identificati e processati.
L’importanza di continuare a raccontare questa storia
Ma perché, cinquant’anni dopo, è importante che la storia di Sergio Ramelli venga ancora una volta raccontata e fatta conoscere? La risposta di Giuseppe Culicchia, in un approfondimento sul sito della casa editrice del suo libro, è chiara: “Oggi che come cinquanta, ottanta o cento anni fa l’Italia pare di nuovo spaccata in due, oggi che come allora l’avversario è un nemico e che in quanto tale viene spogliato della sua umanità, ho ritenuto di raccontare la storia di un ragazzo di diciotto anni che aveva idee diverse rispetto a quelle della maggior parte dei suoi coetanei e che per questo è stato ucciso. Non sono pochi coloro i quali non vorrebbero più sentirne parlare, e che pensano ancora oggi che i morti non sono tutti uguali, e che certi vadano ricordati mentre altri sia opportuno rimuoverli. Ma il dolore provato da chi li ha amati quando erano in vita non è diverso, anche se c’è chi ritiene che non abbia diritto di cittadinanza”.
Il rispetto della memoria e della verità come riscatto per un dolore che non passa
Un dolore che è innanzitutto dei familiari di Sergio (il padre morto pochi anni dopo di crepacuore, il fratello Luigi, mamma Anita e la sorella Simona) e di quanti hanno condiviso con lui la sua breve vita. Ma è anche di coloro che, negli anni, ne hanno tramandato il ricordo, facendo di quel giovane dai capelli lunghi un simbolo di coraggio e libertà. Ecco, a quel dolore, grazie anche ad un racconto sincero di cosa lo ha provocato (scrive Culicchia: “Non ti ho conosciuto di persona, dunque perdonami se in queste mie pagine hai trovato qualche inesattezza. Sappi solo che ho cercato, dalla prima all’ultima riga, di essere onesto. Ciao Sergio”), oggi può unirsi qualcosa di buono: il rispetto della memoria e della verità e l’impegno a fare in modo che altri non debbano più provarlo.