
La recensione
Casa Paradiso: la solitudine e la libertà di Benito che sceglie di ritirarsi per far riflettere sulla sua assenza
“Casa Paradiso” di Mario Volpe (Capponi Editore, €16,00, 208 pagine) è un romanzo che scava con delicatezza e crudezza nell’animo umano, esplorando solitudine, libertà e la ricerca di senso in un’esistenza priva di certezze. Attraverso Benito Gramaglia, ingegnere in pensione e vedovo, Volpe costruisce una riflessione esistenzialista che richiama Albert Camus e Jean-Paul Sartre, intrecciando il loro pensiero a una realtà dolorosamente concreta.
Benito si ritira in Casa Paradiso, una struttura svizzera dove “la fragile luce dell’alba ingialliva la facciata”. Qui, “uomo troppo vecchio per rimpiangere il passato, ma ancora desideroso dei teneri abbracci dei suoi figli che non arrivavano più”, diventa “una delle tante ombre” in un luogo che amplifica il suo isolamento. La sua scelta richiama Reinhold Messner, che affronta le cime in solitaria: come il leggendario alpinista, che ha lasciato la sua eredità ai figli solo per trovarsi spesso distante dal loro affetto, Benito si ritira consegnando ai figli il frutto della sua vita, ma riceve in cambio abbandono, affrontando il vuoto della perdita della moglie e del ruolo sociale. Volpe richiama Camus e Sartre: la libertà di Benito è un fardello, come Sartre scrive ne L’essere e il nulla – “l’uomo è condannato a essere libero” – poiché deve costruire senso senza certezze, mentre Casa Paradiso, con i suoi “corridoi asettici” e la routine dove “ogni mattina era uguale all’altra”, è un microcosmo assurdo che riecheggia Camus ne Il mito di Sisifo: “L’assurdo nasce dal confronto tra l’appello umano e il silenzio irragionevole del mondo”. La demenza rende tutto più straziante: “Il ricordo di una vita piena gli sfumava dal cervello, che andava pian piano spegnendosi”. Come in Quando sarai piccola di Simone Cristicchi, Benito si riduce alla sua essenza fragile, non riconoscendosi allo specchio “come un animale”. La canzone di Cristicchi, con versi come “quando sarai piccola, ti porterò al mare / e ti insegnerò a nuotare” e “ti sembrerà di volare, ma è solo il tempo che passa”, evoca la vulnerabilità di chi, come Benito, si ritrova spogliato dal tempo, aggrappato a frammenti di memoria che sfumano come promesse non mantenute.
I figli – Febo, Belinda e Lory – incarnano un distacco quasi kafkiano. Alla consegna dell’urna con le ceneri del padre, Febo, “con la faccia cupa e l’aria indifferente”, evita ogni emozione, mentre Belinda chiede con tono acido: “Ora che si fa con papà?”, ricevendo un secco: “Sono soltanto ceneri, papà non c’è più”. Ossessionati dall’eredità, non colgono il gesto di Benito come un invito a interrogarsi sulla propria finitezza. Volpe non giudica, ma evidenzia un fenomeno contemporaneo: delegare i genitori alle RSA come Casa Paradiso, simbolo di legami familiari fragili in un’epoca di ritmi frenetici e individualismo. Questo distacco, contrapposto alla dedizione passata di Benito, riflette la fluidità dei legami familiari odierni, spesso ridotti a relazioni anonime. La modernità, con la sua enfasi su autonomia e successo personale, ha eroso il senso di dovere reciproco: i figli, assorbiti da carriere e vite frammentate, vedono i genitori anziani come un peso più che come un legame vivo, delegando a strutture come Casa Paradiso non solo la cura fisica, ma anche l’intimità emotiva. In un mondo dove il tempo è merce preziosa, l’amore familiare si dissolve in gesti formali, lasciando anziani come Benito a confrontarsi da soli con la fine. Questo fenomeno pone domande scomode sul valore dei gesti verso chi affronta la vecchiaia.
La scrittura di Volpe, semplice ma densa, riflette la sua esperienza con La linea scritta e la Scuola Holden. L’ambientazione, con “un tripudio di vegetazione impregnato dall’odore delle vacche al pascolo”, contrasta con l’aridità emotiva del protagonista, che ricorda frammenti vividi come “gli occhi, allungati a goccia. Azzurri come la luce degli ultimi scavi in galleria, eco del suo passato da ingegnere. Il ritmo lento, scandito da gesti quotidiani – Benito che “esplorava il pavimento con i piedi nudi alla ricerca delle pantofole” – immerge nella monotonia opprimente della struttura, rendendo il vuoto palpabile.
Il finale, aperto e senza consolazioni, sfida il lettore a trovare senso nel nulla, ma lascia spazio a una riflessione più ampia. Benito, fragile ma ribelle, sceglie la solitudine come ultimo atto di esistenza, lasciando un segno che invita a guardare il vuoto e trovarci un riflesso di sé. Da una prospettiva cattolico-cristiana, la sua vita, pur segnata dall’abbandono, ricorda che ogni persona conserva una dignità inalienabile, anche nel silenzio. La speranza cristiana suggerisce che l’amore, persino quando non ricambiato, non è mai vano, e che il vuoto di Benito può trovare eco in un senso più grande, radicato nella fiducia che nessuno è mai davvero solo. Casa Paradiso è un pugno allo stomaco, tanto scomodo quanto necessario, che spinge a interrogarsi sul valore dell’amore e della dignità umana quando tutto sembra perduto.
Un romanzo profondo, che intreccia filosofia e umanità con una lucidità disarmante. Consigliato a chi osa confrontarsi con le domande ultime dell’esistenza.