
L'intervista
«L’Italia è bellezza e rinnovamento: ecco il nostro conservatorismo futurista». Parla Alessandro Giuli
Il ministro della Cultura affida al Secolo d'Italia il punto sui suoi primi sei mesi di lavoro assieme alle riflessioni sull'Europa, su Musk, su Ramelli e sulla memoria sempre "attuale": l'identità
A che punto sono i cantieri di questa Na(rra)zione “differente” su cui la destra si gioca una parte determinante del proprio mandato e del proprio futuro? Siamo ormai a due anni e mezzo di governo e partendo proprio da questo tema Alessandro Giuli – ministro della Cultura che il nodo dell’egemonia post-gramsciana lo ha affrontato da saggista e lo declina oggi gestendo il delicatissimo dicastero di via del Collegio romano – ha scelto il Secolo d’Italia per un’intervista a tutto campo che parte da un dato di verità riguardante l’entità della sfida: «È veramente la prima volta da quando esiste la Repubblica Italiana che la destra viene messa alla prova della gestione della cultura, quindi io dico spesso “siamo degli esordienti molto ben preparati”. Dobbiamo essere all’altezza di una grande responsabilità, ma il dato strategico – e in questo risiede l’intuizione, una delle grandi intuizioni di Giorgia Meloni – sta nel fatto che una destra definita dagli avversari come subalterna, una destra concepita come mercantilista, così legata alla narrazione un po’ caricaturale del berlusconismo per cui è tutto spettacolo, in realtà alla prova dei fatti ha voluto investire proprio nel mare grande della cultura».
Ministro, partiamo proprio da qui: che cosa registra il diario di bordo?
«Da una parte c’è chi ha detto “sono arrivati i lanzichenecchi”, occupano tutto l’occupabile e la loro egemonia è in realtà semplicemente un feroce spoils system per piazzare persone in nome dell’amichettismo e così via. E questo è il discorso dei perdenti o dei perduti. Dall’altra parte ci sono i risultati: in soli sei mesi abbiamo già fatto una legge chiamata “Decreto Cultura”, prevedendo 45 milioni di euro per la filiera dell’editoria, dal sostegno alle librerie storiche o presenti nei borghi, fino all’acquisto di libri per le biblioteche e al supporto alle pagine culturali dei giornali cartacei, in un’ottica di attenzione per le periferie metropolitane e i borghi più isolati. E poi abbiamo creato due strutture di missione: una intitolata al Piano Olivetti che, come il nome stesso fa comprendere, si occuperà di lavorare nelle comunità più svantaggiate, nelle aree interne, per ampliare l’accesso alla cultura dal basso. L’altra struttura si occuperà di diplomazia culturale ed è incastonata dentro la cabina di regia del piano Mattei. Non abbiamo bisogno dei “persuasori permanenti” di cui parlava Gramsci per realizzare le cose. Semplicemente bisogna lavorare bene».
Una cultura “interventista” ma non pedante, insomma.
«Esatto. La prima struttura mapperà la “siccità culturale italiana” creando una struttura di monitoraggio interministeriale, in collaborazione con i corpi sociali e le comunità concrete. Con la seconda struttura di missione il MiC fa la propria parte dentro un disegno concepito dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e da Palazzo Chigi per organizzare un sistema multilaterale di relazioni internazionali con l’Africa e il Mediterraneo allargato. Sviluppo economico, ricerca, formazione, risorse energetiche e sfere di influenza geopolitica fanno parte di un disegno complessivo, in cui l’interesse nazionale coincide con la riformulazione degli equilibri europei ed euro-mediterranei».
Altro incrocio temporale: i suoi primi sei mesi al MiC. Sono caduti a Marzo: il mese dedicato a Marte, il dio romano della guerra. La vede come l’apertura o la chiusura di un cerchio?
«Marte è anche un dio “tranquillo” – i Romani lo chiamavano in questo caso Quirino. È il dio che fa spuntare i germogli dal suolo, non è soltanto il dio della guerra o delle mattanze. Ha presente come è fatto un germoglio? È fatto a forma di cuspide, di una lancia. Poi, se serve, si combatte».
Restiamo nella metafora.
«Siamo in una fase primaverile del ministero, che è una fase di rinascita, di apertura, in cui le prime seminagioni cominciano a germogliare. Del Decreto Cultura abbiamo parlato, altro risultato importante è che stiamo per portare a compimento la riforma instradata dal governo e dal Ministero della Cultura fin dal proprio insediamento nel 2022. Una riforma necessaria, che mette ordine dentro il Ministero.
Uno degli ultimi scontri fra opposizione e maggioranza – innescato dalle accelerazioni di Donald Trump sulla scacchiera della geopolitica – si è giocato su un terreno ricco di cultura e immaginario: l’Europa. Giorgia Meloni è stata nettissima: la sua idea di Europa non coincide con quella tratteggiata nel manifesto di Ventotene. Vale anche per lei lo stesso ragionamento?
«Sì! Io sono stato un militante del Fronte della gioventù, e il nostro slogan era “Europa Nazione”. Mentre i nostri avversari politici inneggiavano all’Unione Sovietica, noi attaccavamo dei manifesti in lingua francese con scritto “Europe, Réveille-Toi”. Lezioni di europeismo non le riceviamo da nessuno quindi. Dopodiché è chiaro che l’Europa che ha in mente una destra conservatrice e riformista non può essere l’entità concepita nei laboratori della sinistra globalista che vede nel Vecchio Continente un astratto moloch burocratico».
Lo dice pure la filologia politica: l’embrione dell’Ue nasce da un patto fra Nazioni. E non vi è traccia dei radicalismi di Ventotene. Quando lo si è fatto notare i fantomatici custodi hanno perso letteralmente le staffe…
«L’Europa non è nata come una federazione, l’Europa è nata da un mito profondo che risale all’alba dei nostri tempi. E noi abbiamo il dovere di tenerla viva attraverso le grandi risorse storiche, culturali, economiche, dei popoli che in essa hanno riconosciuto la propria origine e il proprio destino. Il resto è chiacchiera vana».
L’anno scorso lei ha scritto il “sillabario sull’egemonia contemporanea” richiamandosi ad Antonio Gramsci. Quanto c’entra l’egemonia con la reazione scomposta che la sinistra ha nei confronti dei riscontri internazionali che Giorgia Meloni continua ad ottenere?
«L’egemonia non si declama, si pratica con l’ottimismo della volontà e si fanno cose che trovano un riscontro, un consenso. È evidente che chi ha scambiato l’egemonia gramsciana con delle rendite di posizione fondate su un malinteso senso di diritto divino oggi si trova a corto di argomenti e con un’alta carica di aggressività. Isaiah Berlin diceva che l’avversario è necessario perché obbliga a misurarsi con se stessi. Però diciamolo: l’avversario dovrebbe produrre argomenti un po’ più credibili».
A proposito di egemonia, torniamo al nume tutelare del Decreto Cultura: Adriano Olivetti. L’accuseranno di appropriazione indebita.
«Questa cosa mi diverte abbastanza perché in realtà Olivetti è stato anatemizzato negli anni ’50, come è noto, dal Partito comunista. E non da uno qualsiasi, ma da Mario Alicata. Alicata scrisse che Olivetti era un nemico di classe e agiva in nome di un paternalismo borghese, per la semplice ragione che non sposava il materialismo dialettico dogmatico di un partito che obbediva, oltre che a una dottrina, ai desiderata di Mosca. Olivetti è stato uno straordinario uomo di una sinistra nazionale e riformista che ha sacrificato l’ideologia in nome del senso di servizio sociale nei confronti delle comunità. Olivetti è stato un grande imprenditore che ha favorito la creazione di progetti straordinari: è un bene pubblico italiano».
Al racconto nazionale manca qualche tassello, rimosso e ostracizzato da troppo tempo. Non crede?
«Nel calendario del Ministero della Cultura sono contenute molte celebrazioni storiche collegate a Matteotti, a Gramsci, al tempo stesso siamo orgogliosissimi di valorizzare Giovanni Gentile, di far tornare al centro del discorso pubblico la potenza intellettuale di grandi filosofi nazionalconservatori che hanno riformato la cultura italiana».
Soddisfatto del successo della mostra sul Futurismo? Dopo tante polemiche i numeri e la critica hanno dichiarato che è ancora “tempo” di Marinetti, Boccioni, Sironi?
«Soddisfattissimo. La mostra del Futurismo è il prodotto di un concorso di forze intellettuali, museali, culturali e trasversali. Un successo tale che la mostra è stata prorogata di due mesi, con nuove opere, ed è stata visitata finora da oltre 130.000 persone. L’entusiasmo generato è la dimostrazione che è sempre la stagione giusta per il Futurismo e le avanguardie».
Un successo condiviso, del resto, con quella dedicata a J.R.R. Tolkien. Ma non erano tutte impuntature della fantomatica “destra catacombale”?
«Tolkien non è un capriccio della storia, è un punto cardinale della cultura europea. Quindi il risultato della mostra dello scrittore britannico, oltre 300.000 visitatori in 4 diverse città, il risultato del futurismo e delle mostre che verranno, malgrado strumentalizzazioni e travasi di bile, testimoniano la verità genuina: quella scritta dal pubblico. Poi esiste l’interpretazione e sull’interpretazione tutto è lecito: ma la verità è testarda e va avanti da sola».
Sono trascorsi 50 anni dell’assassinio di Sergio Ramelli. Tanti libri, meritori, sulla sua memoria: eppure manca ancora un grande affresco cinematografico sulla sua storia e più in generale su tutti i cuori neri. Nel cinema italiano resta un occhio “pigro” per il pregiudizio?
«Ramelli è uno scandalo della ragion pura e della ragion pratica nella biografia politica dell’Italia. Ed è vero: il cinema italiano, la creatività dell’audiovisivo e tanta parte dei soggetti culturali italiani sono in ritardo rispetto a un frammento di storia che è stato indagato scientificamente soltanto da parte di figure come Adalberto Baldoni e Nicola Rao. Un grande lavoro di ricognizione storica tenuto semiclandestino nel discorso pubblico che oggi, però, comincia a riemergere. Ci sono segnali di riapertura alla riflessione su quello che è successo. Quando uno scrittore della caratura di Giuseppe Culicchia si occupa del caso Ramelli ti fa capire che è anche giunto il momento che certe barriere siano oltrepassate. E, sia pure con mille caveat, ormai anche a Milano chiunque sia il sindaco, in questo caso è Sala, sa perfettamente che non si può prescindere dal ricordo di Sergio: non si fanno più gli applausi in Consiglio comunale come accadde vergognosamente quando venne ammazzato. Esiste, insomma, ormai un comune senso del pudore rispetto alla cattiva coscienza di chi ha tenuto sepolta la storia del caso Ramelli: ed è un passo avanti. Dopodiché si facciano avanti le persone che hanno il coraggio, la competenza, la volontà di parlarne, di scriverne, di rappresentare questo pezzo di storia italiana così paradigmatico di un’epoca e di un clima. Dal mio punto di vista parlare di Ustica è indispensabile, parlare delle stragi è doveroso, ma non è più indispensabile e più doveroso di illuminare casi come quello di Sergio Ramelli».
Cosa pensa di Elon Musk? Bisogna cavalcare l’algoritmo o maledire il mondo moderno?
«Nell’uno o nell’altro. Di lui mi intriga l’idea titanica, molto americana, che lo anima. E lo dico da vecchio lettore di Alain de Benoist, non certo un filoamericano. Musk rappresenta due tratti fondamentali che una certa vecchia cultura europea non ha ancora compreso degli Stati Uniti: il gigantismo e una punta di infantilismo, che è quello su cui poi giocano i suoi avversari quando lui fa i tweet sconsiderati, quando strapazza il galateo, commettendo anche degli errori di grammatica dal punto di vista della diplomazia. Però per capirlo, se non ci si accontenta di abbaiare alla Luna, bisogna rendersi conto che l’anima profonda degli Stati Uniti è un’anima dedita alla conquista dei grandi spazi e alla protezione del proprio orgoglio».
Questa è la diagnosi. La cura?
«O comprendiamo questo e ci misuriamo con degli irregolari rispetto ai nostri canoni, oppure continueremo a dividerci. Io non sono né un adorante, né un detrattore, ovviamente, e sull’intelligenza artificiale o comunque su tutto ciò che rappresenta il tema dominante di questi tempi, sono convinto che bisogna avere un atteggiamento non dogmatico. Siamo dentro un processo di trasformazione; dobbiamo oggettivarlo, analizzarlo secondo i nostri canoni, e su questo noi partiamo avvantaggiati, perché siamo gli eredi dell’Umanesimo e del Rinascimento, quindi sappiamo perfettamente cosa significhi mettere la scienza al servizio dell’armonia dell’essere umano. Però ci stiamo dentro, quindi è totalmente sbagliato immaginare che l’intelligenza artificiale sia il volto nascosto di un demone maligno. È un’immane potenza da maneggiare con cura».
A proposito di materiale da maneggiare con criterio, ecco la vicenda dei dazi di Trump. A differenza di altri, però, l’Italia ha assunto una posizione vigile: senza isterismi.
«Qualche giorno fa, durante un Consiglio dei Ministri, il Presidente Meloni ha fatto un’analisi lucidissima: non facciamoci prendere dal panico, non abbandoniamoci a contromisure istintive che potrebbero ritorcersi contro di noi e trattiamo, sapendo che i fondamentali economici dell’Italia sono solidi. Quanto sta avvenendo in queste ore con la moratoria di Trump e l’invito a trattare sta andando proprio in questa direzione».
Allora, da un lato noto una certa ebbrezza per il transumanesimo, dall’altro c’è appunto l’amore per i miti umanistici e carnali del passato: come l’ultima scoperta a Pompei – un affresco di un rito dionisiaco – che lei ha molto apprezzato. Un bel bivio per un conservatore.
«Non c’è nulla di divino che non attraversi l’umano. Questa è pura dottrina orfica, ma è anche un dato che riconoscono prevalentemente tutte le confessioni, quindi io tendo sempre a evitare queste contrapposizioni binarie tra il culto dell’arcaico e l’ebbrezza del divenire futuribile. Ho parlato recentemente di “conservatorismo futurista” perché mi interessa molto che nella formazione del gruppo europeo di Ecr che è stato costituito – presieduto fino a poco tempo fa e animato da Fratelli d’Italia – l’aspetto del conservatorismo e l’aspetto riformatore siano compresenti in una forma visibile, equivalente. Questo genera un cortocircuito nella testa di chi ha bisogno di immaginare che la destra debba essere soltanto regressiva, reazionaria, offensiva, distruttiva. E questo vale per tutti gli aspetti nella realtà. A Pompei è stato scoperto qualcosa di cui scriveranno ancora quando noi saremo tutti morti. Ma per studiare Pompei, per conservare Pompei con tutto il suo patrimonio straordinario, e vale per tanti altri siti, useremo l’intelligenza artificiale; useremo la tecnologia di ultima generazione e faremo bene a farlo».
Immagino che tanto di ciò si leggerà fra le pagine di “Antico presente. Viaggio nel sacro vivente”: il titolo del suo ultimo libro in libreria fra qualche giorno.
«Si tratta di un viaggio identitario, dalle popolazioni italiche al mondo etrusco e romano, in un’Italia poco conosciuta che con i suoi luoghi, le sue leggende rappresenta la nostra memoria sempre attuale. E con la prefazione di un gigante dell’Archeologia come Andrea Carandini».
Da appassionato di storia romana, che effetto le fa a vivere un tornante in cui si torna a dire “si vis pacem para bellum”?
«Diciamo che non mi stupisce. Siamo partiti da Marte, dal Marte calmo, dal Marte tranquillo, che fa germogliare la primavera, ma sappiamo perfettamente che Marte è anche il Dio che protegge i confini e protegge da qualsiasi forma di invasione. Però i romani dicevano anche che il bellum deve essere iustum ac pium, cioè che non esiste una guerra benedetta dal cielo, quale che sia la divinità a cui ci si affida o con cui si vuole interloquire, se non prevale un senso di giustizia. E quindi in questo momento ci sono delle linee di frattura enormi che attraversano non soltanto l’Europa, ma il mondo intero, su cui è doveroso riflettere in un modo non disfattista, non bellicista, ma sapendo che da quando esiste l’uomo esiste la necessità che quest’uomo sia pronto a proteggersi, a proteggere le proprie famiglie. Se mi chiede che cos’è la sovranità mi viene in mente un passo di Jünger: “L’inviolabilità del domicilio – e quindi della sovranità di un Paese, così come di un continente – si fonda su un capo famiglia che, attorniato dai suoi figli, si presenta sulla soglia di casa brandendo la scure.” Non bisogna usarla finché è possibile, ma funziona così da quando c’è l’uomo».
L’Europa cosa dovrebbe fare allora?
«Deve stare sulla soglia di casa con una scure contro ogni minaccia dispotica e illiberale».
Sempre lei ha salutato con gioia il ritorno delle reliquie di San Nicola a Bari. Il fatto che sia avvenuto proprio in questi giorni fa pensare a una suggestione: alla possibilità, dopo la sanguinosa e criminale aggressione della Russia all’Ucraina, di un ponte fra Oriente e Occidente.
«Il ritorno delle reliquie di San Nicola nasce da un dialogo – avvenuto al G7 della Cultura – dell’Italia con il Canada. Mi fa particolarmente piacere che una figura così importante per il mondo dell’Est Europa, e così essenziale nell’identità di Bari, torni al centro dell’attenzione, perché delle reliquie che erano finite nell’estremo Occidente arrivano nel luogo dell’equilibrio tra i grandi spazi. Perché l’Italia questo è essenzialmente: già definita da Dante “giardino dell’impero”, è come se fosse uno scettro affacciato sul Mediterraneo. Da sempre fonte di civilizzazione, ma anche di compensazione delle linee di pressione e di conflitto tra Oriente e Occidente. Quindi abbiamo questa vocazione. Noi siamo tra le poche Nazioni che possono parlare, tra intelligence e diplomazia, con tutte quelle impegnate in guerra. Perché la nostra vocazione, che pure non è una vocazione banalmente pacifista, è comunque quella di essere l’elemento equilibratore tra Oriente e Occidente, da un punto di vista geografico, morfologico, politico, culturale, storico».
Altro che Italia isolata…
«Quella è tutta propaganda a buon mercato da parte di chi è sceso dal treno della storia. Siamo vocati, al contrario, a essere la zona di transito di tutto ciò che può produrre stabilità, equilibrio, armonia. Non a caso in Italia si terrà la conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina. Come l’Italia è stato il luogo in cui è nata l’Europa, con i Trattati di Roma. L’Italia, poi, è la Nazione che maggiormente ispira da sempre la grandeur di tutti quelli che si sentono imperatori del mondo, che abitino dalle parti di Capitol Hill o che siano dall’altra parte del globo. È la ragione per cui il più grande impero, dopo quello romano e quello dei Parti, cioè la Cina, rispetta l’Italia come non tutti gli italiani ancora hanno imparato a rispettarla».
L’obiettivo più ambizioso da qui alla fine del suo mandato?
«Rendere irreversibili delle cose buone come il piano Olivetti, attraverso la visione di una grande impresa culturale che si metta al servizio del fabbisogno sociale italiano, con l’Istruzione, con l’Università e la ricerca, con la Salute. L’obiettivo di fondo è fare del MiC un grande strumento al servizio di un più grande disegno di governo».