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Processo a Mussolini di Mino Caudana

Il libro

“Processo a Mussolini”: il romanzo che racconta quello che non fu. E interroga su quello che resta

Nel 1965 Mino Caudana immaginava il duce sottoposto a un regolare processo, con implicazioni politiche enormi. Ma a 80 anni di distanza dagli eventi la storia va sottratta alla politica e restituita alla storiografia. Anche perché in molti non conoscono nemmeno più i fatti

Libri - di Ulderico Nisticò - 27 Aprile 2025 alle 07:00

Processo a Mussolini è il titolo di un simpatico e inquietante racconto di fantastoria, pubblicato nel 1965 da Mino Caudana per i tipi del CEN. Si trova in tutte le biblioteche casalinghe dei postfascisti. Immagina Caudana che il duce non sia stato ucciso ma catturato vivo (la molto dubbia cronaca dei giorni attorno al 28 aprile 1945 è per lui solo un pretesto narrativo), e che i vincitori lo abbiano sottoposto a un processo propriamente detto, in tribunale; come avevano proposto gli Americani, i quali di udienze e cause vivono in aula e al cinema.

Il modello di Caudana non è il processo di Norimberga, dalla sentenza già scritta, e che, per fare qualche esempio, vietava ogni domanda imbarazzante come il Patto di non aggressione tedesco-sovietico, e la comune occupazione della Polonia, e tutti i rapporti tra la Germania e il mondo… e Norimberga non giovò per nulla alla ricostruzione storiografica della nascita e crescita del nazionalsocialismo. Anzi, Norimberga fu una specie di paradossale assoluzione di massa del popolo tedesco, che fino ai primissimi giorni di maggio 1945 aveva combattuto; e in cambio della scontata condanna di pochissimi gerarchi.

Diversa, e precedente, era stata la storia del fascismo italiano, in particolare negli ultimi due anni. E mentre gli imputati nazionalsocialisti di Norimberga apparvero degli sconfitti demoralizzati e consapevoli della fine, Caudana immagina che il duce affronti la prova in piena vitalità, rispondendo con precisione e ribattendo alle accuse; e perciò gli assegna un avvocato difensore di alto rango, che si offre a tale scopo senza essere fascista e nemmeno italiano: il conte Folke Bernadotte. È una scelta, quella di Caudana, non priva di raffinata perfidia: il conte, della famiglia reale svedese, era un pacifista e umanitario, e aveva lavorato per la liberazione di prigionieri in mano tedesca, tra cui non pochi ebrei; ma, inviato dall’Onu come mediatore tra Israeliani e Arabi in Terra Santa per favorire una pace, egli sarà assassinato dalla banda ebraica Stern il 17 settembre 1948.

Il processo del romanzo è lungo e arduo da riassumere; vengono convocati moltissimi testimoni, tra cui lo stesso Vittorio Emanuele III; e ognuno di quelli dice la sua in modo abbastanza credibile dal proprio punto di vista. La sentenza, per ovvie motivazioni sia letterarie sia politiche, non c’è, e ogni lettore può pensarne una sua. Ora, chiuso il libro, tentiamo di ipotizzare che il processo del romanzo si sia celebrato davvero; e che avessero chiamato a testimoniare non solo il re, o Badoglio (duca di Addis Abeba!), ma roba del calibro di Churchill; Chamberlain, con cui Mussolini aveva siglato di accordi del 1938 e di Pasqua 1939, era morto, ma qualcuno si sarebbe trovato tra i suoi… E che dire dei Patti Lateranensi, che intanto diventavano l’articolo 7 dei Principi fondamentali costituzionali? Il cardinale Gasparri e lo stesso Pio XI non erano più in vita terrena; ma lo erano tanti dignitari vaticani del 1929, tra cui Montini, ormai papa Pio XII.

È curioso chiedersi: se il processo si fosse tenuto davvero, e si fosse concluso con un’assoluzione, Mussolini si sarebbe ritirato dalla politica, o avrebbe tratto profitto dalla XII disposizione finale costituzionale, candidandosi nel 1953 e venendo eletto? Fermi lì: successe a molti! Magari pensare all’assoluzione era un po’ troppo? Ebbene, si pensi, tra molti, a Rodolfo Graziani, condannato all’ergastolo e messo quasi subito in libertà; e a Valerio Borghese

Abbiamo dunque sufficienti argomenti per affermare che se un processo a Mussolini non fosse stato come Norimberga o come a certi militari giapponesi, e invece condotto come un procedimento giudiziario genuino, sarebbe risultato scomodo per tantissimi. Mi spiego meglio: che il Savoia si fosse lasciato incoronare imperatore d’Etiopia nel 1936 e re d’Albania nel ‘39, lo sapevano tutti, e che non si fosse opposto a nessun provvedimento del fascismo fino al 25 luglio ‘43; mi pare però di ben altro peso, se gliene avesse chiesto conto un giudice con un cancelliere che mettesse a verbale; e lo stesso per Churchill e cardinali e politici, eccetera. E accenniamo solo al lunghissimo elenco di antifascisti del 1943 che erano stati fascisti, o almeno governativi fino a qualche mese prima del 25 luglio. Inclusi i fascisti superstiti: per dirne una, Dino Grandi morrà nel 1988 a Bologna.

Dove vorrei arrivare? Alla spiegazione logica, anche se non comprovabile con documenti e testimonianze, di un avvenimento che, a ottant’anni data, mi appare sempre più strano: la vulgata che Benito Mussolini sarebbe stato assassinato nelle oscure circostanze di cui tanto si è parlato, e nessuno si è mai seriamente convinto della verosimiglianza della… no, degli svariati e contraddittori racconti. In una logica antifascista e dei vincitori detto in generale, la fine della guerra esterna e civile avrebbe richiesto una scena pubblica e tragicamente solenne, e quindi di valore propagandistico e politico, e non quel modo clandestino e casuale, e per mano di un qualsiasi anonimo insorto, e in fretta.

È come se nel 44 a.C. Bruto avesse preferito avvelenare in segreto Cesare, che frequentava parecchio casa sua (e sua madre Servilia!), invece di imitare teatralmente Armodio e Aristogitone con i pugnali e in pieno senato; o se Robespierre nel 1793 avesse eliminato Luigi XVI nel chiuso di una cella e non per lama del boia Sanson davanti alla folla di Parigi. Non persuade; e non basta nemmeno l’osceno spettacolo di piazzale Loreto, che oltraggiò dei cadaveri e non dei vivi. Qualunque cosa sia davvero successa di quanto è stato detto e scritto, o forse di quanto non sappiamo e non mai sapremo, la sola cosa certa è che la morte di Mussolini giovò a molti, e molti dovevano temere che restasse in grado di parlare; e agli occhi di questi, mi appare indiscutibile dovesse morire esattamente per non essere processato, o per non avere altra possibilità di esprimersi. Se così fu, chi fossero i sicari conta poco; e anche se furono italiani o agenti stranieri, e agenti di chi. E qui spunta anche la questione delle carte segrete?

Anche per questo la storiografia, che quando è seria è anche asettica e sostanzialmente neutrale, deve lamentare la perdita di quella narrazione dei fatti dal 1914 al ’45, che avrebbe potuto leggere dalla penna stessa di Mussolini del dopoguerra, da giornalista e scrittore di razza qual era. O, sotto un altro profilo, la morte risparmiò al duce di essere, in qualsiasi modo, un sopravvissuto a se stesso, e ne consacrò il mito nella memoria dei seguaci e loro epigoni, che ne esaltarono i meriti e si rifiutarono di analizzare gli errori.

Dopo ottant’anni, sarebbe tempo di sottrarre a ogni leggenda di elogio ed esecrazione la memoria di Mussolini, e farne oggetto di studio come, per dirne una, Napoleone? A cominciare dai meri accadimenti, e loro date. Noi parliamo, infatti, di 25 aprile 1945, e anche di 25 luglio ‘43, e anche di 28 ottobre ‘22, come se tutti tranquillamente sapessero che giorni sono e cosa vi successe; e invece io ne dubito assai, ed eccepisco che l’ignoranza lascia campo libero a ogni interpretazione quando non fantasiosa invenzione. Prima del giudizio, è ora di esporre i fatti.

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di Ulderico Nisticò - 27 Aprile 2025