CERCA SUL SECOLO D'ITALIA

partito cinese d’Europa

Tutti i compagni del Dragone

Quel “partito cinese” che siede a sinistra: decenni di svendite e inchini a Pechino da parte delle élite rosse di tutt’Europa

L'elenco è lungo: da Romano Prodi che aprì alla svendita di interi comparti industriali italiani alla Cina, fino a Beppe Grillo, passando per la Germania di Merkel, la Francia di Macron, fino ai globalisti nostrani. Eppure le sinistre continuano a tapparsi gli occhi

Politica - di Alice Carrazza - 10 Aprile 2025 alle 18:28

Il nuovo scandalo per la sinistra europea? I dazi di Trump contro la Cina. Il presidente americano ha lanciato l’ennesimo avvertimento: “Non permetteremo alla Cina di continuare a distruggere la nostra industria”. Ma a Bruxelles, e in certe ambienti progressisti italiani, non è l’arroganza cinese a preoccupare, bensì la reazione americana. Come se il disastro industriale europeo non fosse opera proprio di quei governi progressisti che, per trent’anni, hanno spalancato le porte a Pechino in nome del mercato globale e del sogno internazionalista.

Prodi e soci: le mascotte della sinizzazione

Il curriculum è lungo. Romano Prodi, che oggi posa da austero predicatore anti-Trump, fu lo stesso che nel 2006 benedisse la svendita di interi comparti industriali italiani alla Cina. Non un passo falso, ma una strategia. Intervistato, infatti, poco tempo fa dalla televisione cinese, si trasformò in un cortigiano giulivo, tutto sorrisi e moine. Una mascotte della “sinizzazione d’Europa”. «Siamo diversi ma lavoreremo insieme», diceva il 24 marzo tutto carino e coccoloso.

Ma Prodi è solo la punta dell’iceberg. Dalla Germania di Merkel alla Francia di Macron, passando per i globalisti nostrani, il filo rosso è sempre lo stesso: concessioni economiche, silenzi diplomatici e una reverenza inspiegabile verso Pechino. L’Accordo globale sugli investimenti (Cai) con la Cina, firmato nel 2020 con il plauso tedesco e l’imbarazzo di Parigi, resta una delle vette dell’ipocrisia europea: diritti umani citati nei comizi, ignorati nei trattati.

M5s: dalla via della Seta agli inchini a Pechino

In Italia, sotto il governo Conte I, il M5s firmò l’ingresso nella famigerata Belt and Road Initiative. Un’adesione salutata da Di Maio come «una grande vittoria», mentre i cinesi ridevano sotto i baffi. Giorgia Meloni, allora all’opposizione, fu lapidaria: «I Cinquestelle sono la quinta colonna del regime di Pechino in Italia». Profetessa? No, semplicemente lucida.

Oggi, gli stessi partiti che hanno permesso l’infiltrazione cinese nei porti, nelle infrastrutture e nelle tecnologie strategiche europee si stracciano le vesti per qualche punto percentuale di titoli in Borsa. Non li turba il lavoro minorile nello Xinjiang, né la sorveglianza digitale imposta col 5G. Ma guai a toccare i dividendi delle multinazionali che hanno delocalizzato intere fabbriche nel Guangdong.

Il partito cinese d’Europa: senza statuti ma molto attivo

Si chiama partito cinese d’Europa. Non ha simboli né statuti, ma agisce nell’ombra, da Bruxelles a Largo del Nazareno, passando per le molteplici iniziative del M5s in cui la parola “Cina” compare con sorprendente frequenza nei loro comunicati ufficiali e documenti pubblici. Il credo è uno solo: fedeltà al regime comunista, quello che – secondo Amnesty International – resta il primo boia del pianeta. Le esecuzioni in Cina avvengono ogni anno a migliaia, ma i numeri sono classificati come segreto di Stato. Tanto per intenderci, nel 2024 Tehran ha eseguito 972 condanne a morte, pari al 64% del totale mondiale noto. Beh, la Repubblica popolare supera l’Iran di gran lunga.

Poltrone d’oro attendono i fan del regime comunista

Eppure, le sinistre continuano a tapparsi gli occhi e la bocca. I loro esponenti sono spesso invitati nei salotti rossi di Pechino: basti pensare a Beppe Grillo, fondatore del M5S, invitato come conferenziere in estremo oriente. E come dimenticare Giuseppe Conte, che da presidente del Consiglio autorizzò l’acquisizione da parte del colosso Ferretti Group — il cui azionista di riferimento è Weichai, non proprio un italiano — di un’area di 220mila metri quadri nel porto di Taranto, dando il benvenuto ai vassalli di Xi Jinping.

Il futuro, per questa élite rossa, è fatto di fondazioni opulente, cattedre universitarie griffate a Pechino e incarichi dorati nei think tank globalisti: perché se la carriera politica va in fumo, resta sempre la via delle consulenze ben pagate, degli incarichi paralleli e delle influenze mascherate da expertise accademica.

Compagni al servizio del capitale rosso made in China

Ora, con Trump che rilancia il protezionismo e Giorgia Meloni che vola alla Casa Bianca per chiedere reciprocità commerciale e dignità produttiva, il partito cinese europeo si sveglia stizzito. Denuncia il ritorno del nazionalismo, agita lo spettro della guerra tariffaria, invoca la “solidarietà globale”. Ma la vera domanda è un’altra: dov’erano i nostalgici compagni quando l’Europa diventava succube della Cina? La risposta è semplice. Erano lì. Con la penna pronta a firmare. In questa commedia grottesca che si finge tragedia, la destra sociale ha il compito storico di difendere un popolo prima abbandonato, poi sfruttato, da una sinistra che gli ha scaricato addosso il conto delle proprie utopie fallite, mentre brindava nei salotti del potere. Una sinistra che oggi, con coerente spudoratezza, non rappresenta più il lavoro né la giustizia sociale, ma gli interessi strategici del capitale rosso made in China.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

di Alice Carrazza - 10 Aprile 2025