
Pifferaio tragico
Referendum a scoppio ritardato. Così Landini pensa all’opposizione e non ai lavoratori
Il grande sindacato della sinistra italiana si è "ricordato" della vergognosa compressione dei diritti dei lavoratori fatta nel 2015 dal Governo Renzi, soltanto nell’anno 2025 durante il Governo Meloni. Guarda un po'...
L’8 e il 9 giugno saremo chiamati al voto per i cinque referendum promossi dalla Cgil. È la prima volta che la Cgil, o un altro grande sindacato, scende in campo in prima persona come promotore di un referendum. L’unico precedente risale al 1985, quando la sola componente comunista della Cgil si unì al Pci per il referendum contro l’abrogazione della scala mobile (l’automatismo che adeguava le retribuzioni all’inflazione). Quattro dei cinque referendum sono sul lavoro e, precisamente, propongono l’abrogazione di norme contenute nelle leggi sul lavoro conosciute con il nome di Jobs act. Ovviamente la campagna viene presentata come un passaggio essenziale per ripristinare diritti fondamentali dei lavoratori che quella norma ha eliminato. La discussione potrebbe – e dovrebbe – finire qui!
Presa di coscienza al rallentatore
Non sfugge infatti a nessuno l’anomalia sulla tempistica: il grande sindacato della sinistra italiana si è ricordato della vergognosa compressione dei diritti dei lavoratori fatta nel 2015 dal Governo Renzi, soltanto nell’anno 2025 durante il Governo Meloni. Il sospetto è che ad indurli a tanta mobilitazione sia più il posizionamento nell’assetto politico che una tardiva indignazione. Il giudizio di chi fa sindacato su larga parte del Jobs act non può che essere negativo ma a chiunque è chiaro che questa campagna referendaria sia più motivata dalla necessità di scalare le gerarchie dell’opposizione politica che dall’esigenza di servire gli interessi dei lavoratori.
Entrando nel merito dei quesiti se ne ha la conferma. Il referendum bandiera è quello sull’abolizione della norma che abrogò l’art. 18, la cosiddetta tutela reale: il diritto di un lavoratore ad essere reintegrato nelle aziende sopra i 15 dipendenti se il licenziamento viene dichiarato illegittimo. In verità la portata di quella norma è stata largamente ridimensionata dalla magistratura e dalla Consulta che ne hanno circoscritto l’applicazione. Inoltre la norma che uscirebbe dalle urne avrebbe non poche contraddizioni che rischiano addirittura di fare peggio.
Propaganda più che tutele
Anche gli altri tre referendum hanno più una funzione propagandistica che non una reale portata pratica nel caso venissero approvati; si interviene sulla durata dei contratti a termine, sugli indennizzi per i licenziamenti illegittimi nelle piccole aziende, sulle responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro negli appalti. Tutte materie complesse sulle quali intervenire per via referendaria minaccia di creare più problemi che soluzioni. La ciliegina sulla torta è rappresentata dal quinto referendum, quello più politico: dimezzare i tempi per ottenere la cittadinanza italiana da parte degli immigrati.
Sarà per questo che sui posti di lavoro, negli uffici come nelle fabbriche, questa campagna referendaria si vede poco e niente. La potente macchina organizzativa della Cgil si è vista più nelle vie dello shopping delle nostre città che davanti ai cancelli delle aziende. Le migliaia di rappresentanti sindacali di base di quell’organizzazione sembrano vivere questa mobilitazione con la freddezza di chi mormora sottovoce “e perché non lo abbiamo fatto prima?”.
Un posto al sole…nell’opposizione
Anche perché tutti sanno che il raggiungimento del quorum è praticamente impossibile. Tanta fatica per non cambiare nulla, se non segnalarsi come opposizione sociale contro il Governo votato dagli italiani, esercitando una supplenza rispetto ad una opposizione politica divisa e confusa. Con buona pace dei tanti problemi veri dei lavoratori italiani.
Segretario Confederale Organizzativo UGL