
Insidie nascoste
Salviamo l’italiano dall’inglese e… dai dialetti. Anche per il turpiloquio la nostra lingua ha tutto ciò che le serve
Abbiamo bisogno di italiano parlato per tutti gli usi: professionali e dotti, normale conversazione e anche invettive contro l’arbitro e il Var. Del resto, non mancano circonlocuzioni pittoresche
La lingua italiana sta subendo diversi attacchi, e non mi pare che stia reagendo molto bene. Un attacco è quello frequentissimo da parte dell’inglese, o direi più esattamente americano, che ha dalla sua l’uso mondiale di alcune terminologie tecniche; e la sua intrinseca caratteristica di sintesi e di capacità di comunicazione; e la facilità di apprendimento per chi non fa il dotto oxfordiano.
È l’inglese degli aeroporti, del commercio e magari anche della divulgazione, e pronunziato alla meglio e con dubbi di semantica; però proprio per questo è potentissimo. Esempio? L’India, con migliaia di anni di civiltà e di lingue solennissime, alla fine continua a usare l’inglese come ai tempi di Vittoria imperatrice; e così fa l’Europa nonostante la Brexit.
Consolatevi, anche i Romani, pur gelosissimi del latino come lingua dello Stato, si divertivano spesso con il greco: un greco dei porti, come degli aeroporti è un certo inglese; o un greco letterario. Non è dunque sono un fatto di predominio americano, ma proprio un problema glottologico, e anche il più accanito nazionalista si trova in difficoltà; tranne a fare come nel Ventennio quando traducevano i cow boys con butteri; il che era anche sbagliato, perché le due categorie avevano in comune solo i cavalli; sbagliato come quando leggete in tv che Tizio è niente meno che filosofo, traduzione… no, translitterazione del francese philosophe, che vuol dire solo opinionista. E non scordiamo i terribili danni morali di aver reso il francese bonheur con l’italiano felicità, che vuol dire tutt’altra cosa, però la si cerca come fosse a portata di mano di chiunque, donde il dilagare delle nevrosi e peggio.
Dagli attacchi stranieri, la lingua italiana può difendersi. Più sottile è l’insidia dei dialetti, antichi quanto… anzi più antichi dell’italiano, e che tutti usiamo in parte, sebbene non sia attuale incontrare uno totalmente dialettofono; e anche il più fanatico sostenitore di una vera o presunta identità locale si rende conto che è impossibile oggi pronunziare una frase integralmente dialettale, cioè senza l’italiano o degli italianismi; tranne a parlare di argomenti e di epoche premoderne e pretecnologiche.
Ed è questo il vero nemico: parlare dialetto puro comporta il rischio di una visione del mondo, e della stessa politica, che risulterebbe sociologicamente arcaica ed estranea a ogni argomento del 2025; quando non espressione di ambienti e ceti sociali non edificanti… diciamo così. Concludiamo che i dialetti hanno avuto i loro legittimi spazi letterari in argomenti popolari e personali, quindi in certo teatro e in certa poesia e canzone, e anche in certi bei film… Prendiamone uno celebre: vero che fa parlare in romanesco Pio VI, ma quando egli dovette respingere le pretese giacobine, rispose Non possumus, in latino, che è una lezione di teologia e di politologia, mentre se avesse strascicato “e ‘un potemo” sarebbe stata una rassegnata resa. I dialetti dunque devono restare dialetti, e non possono diventare prosa; e per la prosa occorre esclusivamente l’italiano. Dico per la prosa, perché per la poesia ci pensa da solo benissimo dai tempi di Federico II.
Quale italiano? L’Italia unificata da e contro o mezzo mezzo i dialettofoni piemontesi e napoletani, aveva bisogno di una lingua, e adottò l’italiano del Manzoni, che appariva una lingua media e adatta all’uso dell’amministrazione e della politica e di quanto occorreva a uno Stato; una lingua media anche perché ragionevole, e che volutamente non esprimeva passioni e ire e amori ardenti e ansie esistenziali: la lingua del buon cittadino medio, e, secondo il Manzoni, anche buon cristiano però un tantino liberale. Si opposero subito sia gli italianisti come l’Ascoli, sia i classicisti come il Carducci; e seguirono esperimenti di ogni sorta, sia meramente letterari come quelli di d’Annunzio e Pascoli, sia trasgressivi come quelli dei futuristi; ma il modello oggi praticato resta manzoniano, rivisto da due strumenti non proprio di alta cultura: il servizio militare di leva e poi la televisione. La scuola continuò a insegnare l’italiano scritto, e tuttavia temo che alcuni prof ordinino nei locali dialetti la chiusura e apertura della finestra, facendo passare così l’italiano come una specie di lingua straniera per le interrogazioni. E magari si sentono identitari.
E invece abbiamo bisogno di italiano parlato per tutti gli usi, sia quelli professionali e dotti, sia quelli della normale conversazione, sia per inveire contro l’arbitro e il Var: operazione, questa, che si può compiere tranquillamente in perfetto italiano e con ogni più pittoresca circonlocuzione. Volete esempi di turpiloquio dantesco? Ce ne sono, ce ne sono.