
Intervista a Pietro De Leo
“Un’altra bussola”, il libro per un Occidente smarrito: perché abbiamo smesso di riconoscere il pericolo
Nel nuovo saggio l'autore smonta le illusioni del presente: tra guerra rimossa, moralismo ideologico e disarmo culturale. "Abbiamo creduto che bastasse l’economia per garantirci la pace. Ma il mondo è tornato a bussare"
Abbiamo smarrito la bussola. E adesso il caos bussa alla porta. La guerra non è mai andata via, siamo noi ad averla rimossa. È questa, in estrema sintesi, l’accusa che Pietro De Leo muove all’Occidente nel suo nuovo libro Un’altra bussola (Edizioni Efesto). Giornalista e saggista, firma lucida della stampa nazionale, De Leo ci consegna un’opera densa, incalzante, che attraversa i nodi del presente – dal risveglio brutale del 7 ottobre alle piazze infette di antisemitismo – e ne denuncia il tratto comune: la perdita di orientamento culturale. Lo abbiamo intervistato per capire dove ci siamo persi. E se è ancora possibile ritrovare la via.
“Curva a gomito”, pandemia, guerra, antisemitismo. Lei scrive che l’Occidente ha perso la capacità di percepire il pericolo. Quando abbiamo smesso di sentire l’odore del disastro?
Negli anni ’90, per quanto siano stati meravigliosi sul piano del sentimento collettivo in Occidente. Abbiamo messo nel cassetto il primato della politica pensando che l’integrazione economica potesse garantire l’ineluttabilità della pace e della prosperità, e in questa logica rientra il progetto dell’ingresso cinese nel Wto. Ci siamo illusi che il totalitarismo fosse un incubo consegnato alla storia con la fine dell’Unione sovietica. Potevamo correggere la rotta, così come indicato da Silvio Berlusconi a Pratica di Mare nel 2002: “Se sapremo seguire la strada della libertà”, disse, “potremo costruire il secolo della pace”. Purtroppo, però l’Occidente non ha rivendicato compiutamente se stesso.
Lei mostra come l’antisemitismo non sia mai scomparso, ma solo mutato. Serpeggia nei campus, nei cortei, persino nei documenti ufficiali. Di recente, in Francia, la sinistra radicale di Mélenchon ha ritirato un manifesto, creato con l’Ai, perché ritraeva un noto conduttore televisivo con tratti caricaturali associati all’iconografia antisemita degli anni ’30. Perché le nuove élite ignorano certi fatti – o peggio- li legittimano?
L’antisemitismo contemporaneo ha due componenti, tra loro legate. La prima viene praticata sia dall’estrema sinistra che ha animato le piazze post 7 ottobre 2023, sia da parte del mondo radicalchic nelle sue declinazioni politiche e intellettuali. È una variante dell’”antioccidentalismo interno”, parente dell’ideologia woke. L’altra componente è nel blocco delle dittature, che incoraggia le espressioni di antisemitismo come leva per disgregare le società libere.
Una delle parti più dure del libro è quella sul “moralismo a comando”: giustizialismo, revisionismo, conformismo culturale. Ci spiega perché è pericoloso?
Perché rifiuta la complessità e annebbia la vista. Il moralismo piega i fatti per giungere a un giudizio inappellabile sulle persone. Ti dice come devi essere, non ti indica una strada che potresti percorrere, ciò è la negazione della libertà. In questi anni abbiamo sperimentato i guasti del moralismo woke. Temo che però ne stia maturando un altro che, pur agli antipodi, segue gli stessi schemi, quellao del politicamente scorretto esasperato. Mi pare che l’affermazione della seconda versione del trumpismo, diversa rispetto alla prima, abbia questa cornice. Basta fare un giro su X per rendersene conto.
Negli anni ’90 la cultura pop sembrava aver rimosso l’idea stessa del conflitto, cullandoci nell’illusione di un mondo pacificato dopo la caduta del Muro. Oggi assistiamo al paradosso inverso: il mondo si riarma, ma in salsa pop. Dai reel sul “kit di sopravvivenza” della commissaria Lahbib al boom di serie belliche su Netflix, la guerra non viene rimossa: viene raccontata, estetizzata, digerita. È dunque cambiato l’immaginario collettivo?
Le evoluzioni storiche si fondono con la cultura di massa alimentandosi a vicenda. Oggi l’invasione russa in Ucraina e i riflessi del 7 ottobre, tra l’attacco islamista di Hamas contro Israele e la pesantissima risposta su Gaza, hanno riportato la guerra nel “qui e ora”. Fisiologico che la cultura di massa si agganci a tutto questo. Di certo la necessità di approntare una difesa per esistere politicamente è un tema vero per l’Ue. Il video di Lahbib è un esempio di quanto la politica, se si sottomette al linguaggio social, produce disastri. A riguardarlo sembra stia per arrivare un attacco nucleare, quando invece bisogna spiegare che imparare a gestire l’emergenza è un’esigenza di varia natura. Per esempio, può capitare un black out a seguito di un terremoto o di un’ alluvione. Sensibilizzare le persone su questo non è un tabù e anzi può salvare vite, ma bisogna saperlo fare.
Infine, a chi si rivolge Un’altra bussola? Ai giovani, ai politici, agli intellettuali? Chi dovrebbe leggerlo e perché?
Non mettiamo limiti alla Provvidenza! Il verbo “dovere”, da liberale, lo applico solo a me stesso. Diciamo che lo consiglierei a chiunque voglia premere il tasto “stop” alle esasperazioni e tornare a un discorso pubblico basato sul confronto tra culture politiche che sia anche aspro, ma mai dogmatico. Credo sia l’unica strada, oggi, per affrontare la “curva a gomito” della storia. Più si va a caccia di follower più si perdono elettori.