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Luca Steinmann vite al fronte

Cronache tra fango e fuoco

Vite al fronte. L’ultima trincea è l’informazione: Luca Steinmann racconta la guerra che cambia

Dall’Ucraina al Libano, passando per la Siria: nel suo nuovo libro, il reporter indipendente racconta i conflitti del nostro tempo, tra droni, propaganda e verità difficili da scrivere

Interviste - di Alice Carrazza - 20 Aprile 2025 alle 07:06

Ha camminato tra le trincee di mezzo mondo. Ha seguito i razzi nel Donbass, gli scambi di fuoco in Siria, il gelo del Nagorno-Karabakh, e ha posato i piedi sulle macerie del Libano. Ma non cercava lo scoop: cercava le persone. Quelle che restano sotto i bombardamenti anche quando le telecamere si spengono e l’attenzione mediatica si sposta altrove. Luca Steinmann, giornalista, inviato di guerra e analista geopolitico, è uno dei pochi ad aver il conflitto ucraino anche dalle retrovie nemiche. Il suo libro, “Vite al fronte”, è un viaggio dentro il dolore, la propaganda, le verità scomode. Il Secolo d’Italia lo ha intervistato.

Dopo tanti fronti vissuti, cosa la sorprende ancora della guerra? Esiste davvero un conflitto “nuovo” o, in fondo, tutti si somigliano?

«Quel che mi sorprende ancora è la velocità con cui la guerra si trasforma. Oggi ogni conflitto è diverso da quello di pochi anni prima, non tanto per i luoghi o i nomi, ma per l’impatto delle tecnologie che lo attraversano. La guerra in Ucraina, ad esempio, è un punto di svolta. Quando nel 2019 andavo sul fronte del Donbass, i soldati combattevano corpo a corpo nelle trincee, scavavano con le pale, sparavano a pochi metri di distanza dal nemico. Ora, invece, la guerra si è disumanizzata: i droni sorvolano le linee nemiche, si affrontano tra loro o colpiscono a distanza bersagli individuati da algoritmi. I soldati spesso non vedono neppure il nemico. È un conflitto fatto di silenzi e di macchine. Lo stesso vale per la guerra in Libano: ho seguito l’avanzata israeliana in territori dove non c’è stato mai un vero contatto tra eserciti. Combattimenti mediati da missili, razzi, velivoli telecomandati. Così la guerra si fa sempre più impersonale, asettica. E insieme al campo di battaglia tradizionale, prende forma un secondo fronte: quello informativo, altrettanto cruciale e pericoloso».

“Siamo giornalisti, non militanti”

Nel libro scrive che “cambiano i contesti, ma gli attori restano gli stessi”, alludendo chiaramente a Russia e Stati Uniti.Ma oggi, in un mondo dove la Cina si muove silente, quale ruolo gioca davvero nei teatri che ha raccontato?

«La Cina è presente in tutti i conflitti che ho documentato. Ma a differenza di altri attori, agisce con discrezione. Penetra i territori non con i carri armati, ma con accordi economici e manovre diplomatiche. Nel Donbass, ad esempio, sostiene la Russia in modo non esplicito ma determinante, mantenendo allo stesso tempo relazioni diplomatiche corrette con l’Ucraina. In Siria, ho visto arrivare imprenditori cinesi già da tempo, e l’ambasciata di Pechino è sempre rimasta attiva, anche nei momenti peggiori. Dopo l’indebolimento del regime di Assad, la Cina ha mantenuto salda la propria presenza, con relazioni stabili anche con gli attori subentrati. È un attore silenzioso, ma per questo ancor più radicato. Dove altri fanno rumore e se ne vanno, la Cina resta, costruisce, si insinua».

Il suo è un giornalismo scomodo. In Ucraina ha seguito anche le truppe russe. Perché ha scelto di rischiare su entrambi i fronti?

«Perché il mio lavoro non è quello di prendere posizione, ma di raccontare. In un’epoca in cui anche l’informazione è parte integrante della guerra, al giornalista viene spesso chiesto — anche implicitamente — di schierarsi. Io ho sempre cercato di rifiutare questa logica. Il mio obiettivo è raccontare la realtà da tutti i punti di vista, anche quelli più scomodi. Ho cercato di essere presente ovunque: tra i soldati russi e tra quelli ucraini, nei territori controllati da Assad come in quelli dei ribelli. Questo non significa essere neutrali in senso assoluto — ognuno di noi ha un retroterra, valori, idee. Ma non si può trasformare il giornalismo in militanza. È un errore confondere il racconto con la propaganda. Nikita, un collega russo che ho conosciuto e che è stato ucciso da un drone ucraino, diceva sempre: “Siamo giornalisti, non militanti”. Lui scriveva per media statali e indipendenti, spesso sotto pseudonimo. La sua morte è il simbolo di quanto oggi il giornalismo libero sia diventato pericoloso, ma indispensabile».

“Non ho mai taciuto una verità per paura”

Lei racconta la guerra attraverso le vite degli altri. Ma quando la sofferenza è quotidiana, non c’è il rischio di guardare la sofferenza come una scenografia ricorrente?

«No, non ho mai avuto questa paura. Quel che mi spinge è la consapevolezza di essere lì dove la storia accade. È una posizione unica: vedere, toccare, ascoltare. Essere testimone diretto di ciò che un giorno verrà scritto nei libri. Questo mi restituisce un senso di libertà, mi rende più padrone della mia comprensione del mondo. È una forma di sovranità personale. Poi c’è un altro aspetto: io non provengo da territori in guerra, non ho familiari coinvolti, non combatto. In quei luoghi sono un ospite, un osservatore. E questo — nel bene e nel male — mi consente di mantenere una distanza emotiva, di restare lucido anche quando intorno c’è il caos».

C’è mai stato qualcosa che non ha avuto il coraggio di scrivere?

«Non si tratta di mancanza di coraggio, ma di responsabilità. A volte ho scelto di non pubblicare subito una notizia per proteggere una fonte, o per evitare che un’informazione sensibile potesse essere usata contro qualcuno. Raccontare la guerra significa anche dosare, ponderare. Scrivere non è solo trascrivere: è scegliere il momento, il linguaggio, la cornice. Non ho mai taciuto una verità per paura. Ma ho imparato a rispettare i tempi e i contesti. Anche questo fa parte del mestiere».

Dopo tutto ciò che ha visto, è ancora ottimista?

«Sì, lo sono. Ma non perché pensi che il mondo sia destinato alla pace. La guerra non è mai finita. Ci siamo illusi, per un paio di decenni, che fosse così. Abbiamo creduto alla fine della storia, al progresso come cammino irreversibile. Ma il febbraio 2022 — e in realtà anche prima — ci ha ricordato che le guerre esistono ancora, e che sono lo strumento con cui le grandi potenze regolano i propri rapporti. Sono diplomazia con altri mezzi, come diceva Clausewitz. Detto questo, non credo che il mondo stia per crollare. Abbiamo solo preso atto che l’utopia del dopoguerra era una parentesi. Ora ci tocca guardare in faccia la realtà. E raccontarla, senza illusioni».

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di Alice Carrazza - 20 Aprile 2025