Su Angelo Pistolesi una inspiegabile cortina di silenzio
Roma, via Statella 7, a metà strada fra il quartiere Gianicolense e la Magliana. È il 28 dicembre 1977 – le 8,15 del mattino per la precisione – quando Angelo Pistolesi, dipendente Enel e militante missino, esce da casa per andare al lavoro. Proprio in quel momento Luigi Zampa, il gestore dell’edicola poco distante, sta dando il resto a un cliente quando sente uno strano crepitio risuonare nell’aria, come una scarica di petardi. Gli ultimi botti di Natale, pensa distrattamente fra sé e sé il giornalaio. Non erano botti di Natale. Pistolesi, colpito da tre proiettili sparati a bruciapelo da uno sconosciuto, scivola sul selciato ferito a morte. L’assassino, portato a termine il misfatto, si allontana a passo svelto per scomparire dietro l’angolo. L’edicolante, che ha fatto solo in tempo a vedere Pistolesi cadere a terra, chiama subito aiuto. Qualcuno telefona alla polizia mentre il ragazzo viene soccorso. A caricarlo in auto è un portantino del San Camillo, Franco Graziosi, fratello di Claudio, l’agente di Ps ucciso il 22 marzo dai Nap.
Il killer di Angelo ha dimostrato un sangue freddo fuori dal comune, giungendo sul luogo dell’agguato a piedi, in tutta calma e a volto scoperto, per non dare troppo nell’occhio. Percorsi pochi metri, ha aspettato Angelo sotto casa per puntargli la pistola al petto e sparare. Poi, una volta compiuto il crimine, l’uomo ha girato i tacchi ed è tornato sui suoi passi. Stefano Gentili, il nipote del giornalaio, lo ha sorpreso proprio nel momento in cui si disfaceva dei guanti gettandoli in un cortile. Il killer, risalito sulla macchina che aveva parcheggiato in una piazzetta poco distante, prende il volo. Candidato nella lista missina al Campidoglio nelle elezioni del 1976, Pistolesi aveva svolto campagna elettorale al seguito dell’onorevole Sandro Saccucci. Era presente ai fatti di Sezze durante i quali rimase ucciso il giovane comunista Luigi De Rosa. E di certo fu proprio per tale motivo che la famiglia Pistolesi, malgrado il tremendo lutto subìto, si venne a trovare abbandonata da tutti. In particolar modo dai mass media, che per l’ennesima volta riproponeva la tesi del regolamento di conti interno. I responsabili, secondo la stampa dell’epoca, non andavano cercati a sinistra ma a destra, probabilmente fra i suoi ex “camerati” furenti per il fatto che Angelo avesse confermato la presenza del maresciallo del Sid Troccia a Sezze. Un’ipotesi che non stava né in cielo né in terra. Che bisogno aveva la polizia di avere conferma da Pistolesi di quello che sapeva già dai giornali e poteva comprovare senza nessuna difficoltà? Ma i giornali del dolore dei familiari di Angelo se ne infischiarono. La prima rivendicazione arrivò dai “Nuovi partigiani”.
In un articolo anonimo del 29 dicembre il solito Messaggero – quello che tre anni prima si era distinto in un attacco mediatico contro la famiglia del netturbino Mario Mattei, i cui figli Stefano e Virgilio furono assassinati da un commando comunista che dette fuoco alla loro casa – arrivò persino a insinuare dubbi sulla vittima e i suoi parenti: «A giudicare dagli appartamenti e dalle auto in effetti i coniugi Pistolesi non se la passavano tanto male per essere due giovani impiegati (anche lei lavora in un ente pubblico)». E in un altro articolo: «Allo stato attuale nessuna ipotesi si può scartare. Neanche quella di una faida tra gli ultras di destra. Angelo Pistolesi – questo più o meno il ragionamento – una volta arrestato dopo il raid di Sezze ha “cantato” chiamando in causa l’agente del Sid Francesco Troccia e altri camerati rivelando i retroscena della sanguinosa scorreria fascista. E adesso qualcuno potrebbe essersi vendicato. Oppure ha pensato bene di chiudergli definitivamente la bocca, visto che era uno che “sapeva troppo”».
Altra affermazione idiota: per i fatti di Sezze Angelo era stato ampiamente scagionato e rimesso in libertà dopo due mesi di carcere. Ma ovviamente, la cosa costituiva null’altro che un’aggravante: è uscito indenne dall’inchiesta solo perché se l’è cantata. Il delitto, dunque, “doveva” essere una vendetta dei neri. Il colpo di grazia alla moglie e ai genitori del povero militante però venne inferto dalla questura. Nello stesso giorno dell’omicidio, infischiandosene dello stato d’animo dei parenti, gli inquirenti diffusero infatti ai giornalisti una nota informativa con i “precedenti penali” di Pistolesi. Nulla di grave, certo, con il metro di oggi. Ma in quei giorni pure una piuma arrivava a pesare più del piombo e il quadro d’insieme si era già trasformato in una condanna. C’era persino chi si chiedeva come mai l’Enel non gli avesse dato il benservito. Insomma, a leggere Il Messaggero, il destino di Pistolesi era ormai segnato. Da un articolo non firmato, apparso sempre sul quotidiano di via del Tritone il 29 dicembre 1977: «Era tornato ad abitare con la famiglia nella stessa casa (6 camere e doppi servizi per 48mila lire al mese pagate all’Enasarco) dove i vicini lo additavano per i suoi precedenti politici. Non conoscevano quelli “comuni”. Come l’archivista della questura che annotava storicamente s’intende il 9 novembre del 1965 un arresto per guida senza patente e tre mesi dopo una denuncia della procura militare per diserzione,il 15 gennaio 1970 un tentato furto. Poi una condanna con la condizionale. Una denuncia dell’Enel presso cui Pistolesi era impiegato per falsità in atti d’ufficio datata 22 dicembre 1975. Nonostante ciò l’Enel, presso cui lavorava ignorando le traversie giudiziarie del suo impiegato non pensa a licenziarlo. Il 3 novembre 1976 Pistolesi viene denunciato per violazione di domicilio a mano armata ma poi l ‘8 gennaio di quest’anno è prosciolto in istruttoria».
Alla luce di tutta questa mobilitazione, a 34 anni suonati dal fatto di sangue di cui oggi si celebra la ricorrenza, degli assassini di Pistolesi, dei mandanti, dei complici, ancora oggi non è stata trovata – ma neppure cercata – nessuna traccia. In compenso, il ragazzo risulta essere una delle poche vittime degli anni di piombo sulla quale è calata una spessa cortina di silenzio. Un morto dimenticato. È arrivato il tempo di ricordarlo.