Alfano, l’eroe di destra ucciso dalla mafia (e dai silenzi)
È in corso a Barcellona Pozzo di Gotto, nel Messinese, una due-giorni per ricordare la figura di Beppe Alfano, il giornalista assassinato dalla mafia esattamente 20 anni fa al centro della popolosa città. Il caso di Beppe Alfano si discosta da quello di altri esponenti politici, della giustizia o della comunicazione assassinati dalla criminalità, perché lui fu abbandonato dalle istituzioni – e non solo – prima e dopo morto. Nato a Barcellona nel 1945, faceva il professore di applicazioni tecniche, ma aveva due grandi passioni: la politica e il giornalismo. E in entrambe le strade camminava in salita, approdò nel Movimento sociale per schierarsi decisamente contro la mafia e la criminalità. Nella professione, dopo aver lavorato per alcune radio locali, era corrispondente di “La Sicilia”, che lo sfruttava non solo pagandolo poco (come capita per la verità per tutti i collaboratori locali di tutte le regioni) ma soprattutto non spingendo per l’iscrizione nell’Ordine dei Giornalisti, se non nell’elenco Professionisti, almeno in quello Pubblicisti. Ma niente, che lui facesse il giornalista se lo sono ricordati post mortem, iscrivendolo d’autorità nei suddetti elenchi. Il suo impegno politico, le sue idee, unitamente al suo innato senso di giustizia, gli resero la vita difficile, ma questo lui se lo aspettava, lo sapeva e in fondo gli piaceva il ruolo di combattente per la giustizia e per la verità. Ruolo che seppe interpretare fino in fondo con coraggio e dignità. Inutile dire che a oggi non si chi l’abbia ucciso, malgrado l’attività della figlia Sonia, all’epoca dei fatti poco più che ventenne, oggi eurodeputata e animatrice della lotta contro la mafia in Italia e in Europa. Nella ricostruzione che fece Carlo Lucarelli in “Blu Notte” qualche anno fa, ricordiamo questa ragazza bionda, disperata, accusare amaramente i giornali e soprattutto la città di aver lasciato solo il padre e la sua famiglia dopo l’omicidio. Forse per questo Sonia Alfano ha poi compiuto delle scelte che probabilmente suo padre all’inizio non avrebbe condiviso ma che comunque alla fine si sono rivelate opportune e funzionali per rendere giustizia a un uomo onesto e retto. Ma scomodo: di destra e “rompiBalle”, e per questi motivi mai disposto ad alcun compromesso, in nessun caso. Disposizione d’animo che in Sicilia – ma non solo – è quasi sempre letale. E poi va detto che Beppe Alfano non se la prese solo con i mafiosi, ma anche con i massoni e i politici siciliani. Così, quella sera dell’8 gennaio, qualcuno lo chiamò e lui prese la macchina per andare in via Marconi, sempre nel centro cittadino. Lo ritrovarono esanime in automobile, una Renault 9, con i fari accesi e il motore imballato, perché non aveva potuto togliere il piede dall’acceleratore. Fu ucciso da tre proiettili di una calibro 22, e nessuno aveva visto né sentito nulla. Probabilmente Alfano aveva capito chi comandava a Barcellona, da dove venivano gli ordini. E così fu ucciso, magari dai barcellonesi, per fare un favore ai big. O forse fu un esempio, per insegnare ai suoi colleghi, professionali e politici, di non tirare troppo la corda. La Sicilia, il giornale, non si costituì neanche parte civile. Gli altri, tesero a dimenticare, era davvero un morto scomodo. Ma la figlia no, la famiglia no. E ad altissimi costi esistenziali, fatti di intimidazioni, omertà, indifferenza, pietà pelosa. Ma oggi, vent’anni dopo, la memoria di Beppe Alfano è onorata.