“Ministra”, che orrore. La Crusca boccia i neologismi “politici”. Come quelli inventati dalla Idem…
Quattro secoli e mezzo e non sentirli… Chi immaginasse un’Accademia della Crusca ammuffita e “ingessata” su una purezza linguistica fuori tempo massimo, sbaglierebbe due volte: una, al solo constatare l’uso quotidiano che l’associazione fa di facebook, con un sito moderno e frequentatissimo dalle domande di utenti di ogni fascia d’età, non tutti per forza “fissati” per l’italiano, ma semplicemente desiderosi di usare un lessico appropriato alle circostanze che la vita richiede. Secondo, basta sfogliare i titoli delle sue pubblicazioni per vedere come accanto a volumi specialistici ve ne siano altri puntati sull’analisi dell’italiano quotidiano, con tutte le trasformazioni del caso – grammaticalmente sostenibili – che fanno di una lingua uno strumento che vive con l’Italia e gli italiani stessi. Fresco di stampa, non a caso, è il volume La Crusca risponde. Dalla carta al web 1995-2005, a cura di Marco Biffi e Raffaella Setti (Le Lettere), che, come si evince dal titolo non è affatto un libro per “parrucconi”. Anzi. I dubbi, le domande più bizzarre o più colte, i neologismi che la politica ci consegna sono tutti quesiti che l’attualità ci pone e che gli studiosi chiariscono. Rinnovamento non vuol dire stravolgimento, è il pensiero dei “cruscanti”, il cui motto è “elasticità” sì, ma con cautela. Dilemma: il ministro, la ministra, o la ministro ? Risposta: «La proposta di mantenere il titolo al maschile anche quando la carica sia affidata a una donna continua l’uso antico di usare il genere maschile come comprensivo del femminile quando ci si riferiva a proprietà comuni a tutto il genere umano». Del resto, si legge, «guardia, sentinella, guida» sono stati sempre «riferiti, finora quasi esclusivamente, a nomi propri maschili senza scandalo dei grammatici». L’unico obbrobrio da respingere è l’ibrido “la ministra”, da tutti esaltata, tempo fa, quando Josefa Idem disse che voleva essere definita, appunto, “ministra”. Un’idea che le corifee femministe trovarono geniale me che ora la Crusca boccia senza appello.
Promosso a pieni voti invece il termine “inciucio”. «Propriamente il napoletano ’nciucio significa pettegolezzo, chiacchiericcio e il verbo ‘nciucià “spettegolare, fare e riportare chiacchiere”, malignare». Però «la parola tende a scostarsi dal suo significato originale per assumere quello di “imbroglio, intrallazzo, finta”». La Crusca ci sorprende e diverte quando a ironizzare è lei stessa contro i “bacchettoni” dell’italiano duro e puro, quando sdrammatizza certe «fissazioni»: c’è chi punta il dito contro tanti titoli giornalistici che cominciano «con la congiunzione “e”, senza nessun precedente cui sia riferibile quella particella»? Risposta: il lettore «avrà notato nei Vangeli l’uso frequente dell’ “e” all’inizio dei successivi episodi»… Un modo per dire che non esistono dogmi inamovibili. Esempio: si tramandano «certe pseudoregole grammaticali pur non avendo alcun fondamento linguistico: quali il divieto di cominciare un periodo col gerundio». E men che meno le rigidità sull’uso della punteggiatura. Fatta salva l’interpunzione di base funzionale a ua migliore fluidità e comprensione del messaggio scritto, si evince dalle risposte date nel volume, la punteggiatura diventa fondamentale solo per la scrittura letteraria, proprio per una questione di stile: l’autore se ne serve per creare il ritmo e la melodia che fanno del suo testo un unicum. Noi comuni mortali, insomma, possiamo essere più elastici…