Acca Larenzia, alle origini del rito del Presente! Gli studi di Gentile e Accame
Ennesimo anniversario della strage di Acca Larenzia, oggi 7 gennaio 2015, senza che il popolo che ricorda i tre ragazzi uccisi – Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni – riesca a trovare le modalità e lo spazio per una celebrazione unitaria. E tuttavia il tradizionale Presente! si svolgerà nel pomeriggio davanti alla sezione martire al quartiere Tuscolano ad opera dei militanti di CasaPound. Altri gruppi hanno scelto l’obelisco del Foro Italico per ritrovarsi e ricordare i caduti del 7 gennaio. Ricordare in questo modo i morti degli anni Settanta è ormai una consuetudine del mondo della destra radicale. Un rito dell’appello che viene da lontano (dai legionari di D’Annunzio e ancora prima dal Risorgimento) che da un lato rafforza l’identità e la trasmissione ideale tra generazioni ma dall’altro allontana i nomi dei caduti ricordati dall’immaginario della gente comune, come se a ricordare quei morti dovessero essere insomma solo i neofascisti, i loro eredi, i loro simpatizzanti.
Il Presente! per Ajmone Finestra e la tesi di Pennacchi
Rinunciare a quel rito tuttavia non è facile. Il nuovo romanzo dello scrittore Antonio Pennacchi Camerata Neandertal (che fu attivista missino ma venne espulso negli anni Sessanta) si apre proprio con la descrizione del Presente! ai funerali di Ajmone Finestra, fascista mai pentito, ex sindaco di Latina ed ex senatore del Msi. Pennacchi pur essendo contrario al Presente! (“i morti vanno lasciati andare e non si può ogni volta richiarmarli quaggiù…”) alla fine non riesce a sottrarsi a quell’appello e anche lui partecipa a quel rito di ex camerati. Ma quali sono le origini del Presente! che su tante bacheche facebook viene oggi ripetuto in omaggio a Franco, Francesco e Stefano?
Il rito dell’appello secondo Mussolini
Ne parla diffusamente lo storico Emilio Gentile nel suo studio Il culto del Littorio (Laterza) in cui spiega: “Il culto dei caduti ebbe subito un posto centrale nella liturgia fascista e fu probabilmente il più espressivo del suo senso di religiosità secolare e della sua concezione eroica della vita“. Lo stesso Mussolini nel 1917 così scriveva: “Commemorare significa entrare in quella comunione degli spiriti che lega i morti ai vivi, le generazioni che furono a quelle che saranno, il dolore aspro di ieri al dovere ancora più aspro di domani”. Gentile sottolinea che i funerali dei fascisti uccisi erano i “riti emotivamente più intensi e coinvolgenti”. Il corteo marciava al rullo dei tamburi e il momento culminante della cerimonia era appunto il rito dell’appello. “Il rito esprimeva il vincolo sacro tra i morti e vivi, congiunti nella vitalità della fede. Assurti nell’universo simbolico fascista come eroi e santi, i caduti vegliavano carismaticamente sulla comunione dei fascisti, continuando a vivere nella loro memoria”. L’importanza di questo appello è dimostrata anche dal fatto che un’apposita voce, Appello fascista, fu inserita nel Dizionario di politica edito dal PNF nel 1940 e voluto da Mussolini come una sorta di canone della dottrina fascista.
D’Annunzio e le religioni civili
Di questo atteggiamento spirituale dinanzi ai caduti parla anche Giano Accame nel suo libro postumo, La morte dei fascisti (Mursia), nel quale spiega che fu D’Annunzio con i riti dei legionari fiumani ad anticipare la liturgia nazionale che sarà propria del fascismo e che in realtà concludeva l’epoca delle religioni civili nate dopo l’illuminismo. Un’epoca che – scriveva Accame – “iniziata nel 1776 con la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, esplosa con la Rivoluzione francese, aveva vissuto passioni febbrili nel nostro laico, risorgimentale Ottocento e nel primo Novecento, mentre era destinata a svuotarsi verso la fine del Novecento con la fase saturnina, autodivorante dei processi di secolarizzazione”.