La morte di Ingrao, l’eretico comunista che inneggiò al Duce e a Littoria

28 Set 2015 15:57 - di Silvano Moffa

Poeta, eretico, un politico lacerato dal dubbio eppure mai domo. Un incendiario di anime. Un ribelle tra uno stuolo di conformisti. Anche se le sue idee, , quelle cui ancorò la sua salda esperienza di comunista convinto, cresciuto e pasciuto al canto di Bandiera Rossa, quelle idee che non lo abbandonarono mai, conformiste in parte lo furono.  Pietro Ingrao se ne è andato, alla veneranda età di 100 anni. Personaggio complesso. Politico avvezzo alla critica e, qualche volta, anche all’autocritica. I suoi discorsi nei lunghi comitati centrali del vecchio partito comunista si inerpicavano lungo sentieri immaginifici, scavavano nelle coscienze, si addentravano nei meandri psicologici delle folle, vibravano di fervore culturale e incutevano rispetto tra i compagni, non tutti in grado di seguirlo lungo quelle traiettorie del pensiero. La sua era una concezione movimentista della politica. Ma di un “movimentismo” che non sfuggiva mai alle maglie dell’apparato. Paradossalmente, ingabbiato nelle logiche di partito. Il Partito, appunto. Suoni antichi di un diapason che disperde le note nella notte dei tempi. Quando Enrico Berlinguer e Aldo Moro tracciarono il perimetro del “compromesso storico”, Ingrao ne apparve turbato. Amava ripetere: “Non mi avete convinto”. Non lo convinsero neppure i compagni del Manifesto cui aveva dedicato anima e corpo. Quando decisero di abbandonare la baracca (il Pci), lui non li seguì. Salvo poi, a vecchiaia avanzata, riconoscere di aver commesso un errore. Di errori, Ingrao, in verità, ne fece parecchi. Ne ammise anche tanti. Come quella storiaccia dell’invasione dell’Ungheria, dei carrarmati sovietici lungo le strade di Budapest. Lì, il “ribelle” si schierò senza remore dalla parte degli invasori, di chi calpestava il diritto dei popoli e schiacciava con i cingolati la resistenza di operai e studenti.

Ingrao si oppose a Berlinguer e ad Occhetto

Poi, quando Occhetto prese la strada della Bolognina per riformare il Pci, chiudere con Togliatti e Berlinguer, inaugurare la stagione della svolta socialdemocratica di falce e martello, Ingrao alzò le barricate. In difesa dell’idea comunista. Della integrità di una fede, di una passione. Eppure, quella fede e quella passione, non erano state le sole della sua vita. Come poeta vinse a Lucca il “Premio poeti del tempo di Mussolini”, con una lirica dal titolo Coro per la nascita d’una città, con la quale celebrava la fondazione di Littoria e la mussoliniana bonifica delle paludi pontine. Narrano le cronache giornalistiche che fu premiato da Galeazzo Ciano “in una cornice stupenda di popolo all’aperto, adunati i fascisti di tutta la zona”. Ingrao militò prima nel partito fascista, poi nel partito comunista. Quando era fascista prese parte ai Littoriani della cultura, misurandosi in più gare e classificandosi a Roma nel convegno dedicato all’organizzazione del PNF. Da comunista, diresse l’Unità, entrò in Parlamento dalla prima legislatura, raggiunse nel 1976 la presidenza della Camera dei Deputati. Un mutamento di bandiera. Non fu il solo. Giorgio Amendola, comunista anche lui, dedicò alcune pagine ai rapporti tra politica e cultura durante il Ventennio. “Tranne poche eccezioni – scrisse – gli intellettuali in massa diedero la loro adesione al fascismo”. Un’adesione che “non fu sempre manifestazione di viltà, ma, invece, molto spesso, di  intima convinzione”. Ingrao faceva parte di questa schiera.

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