Con Cesare Mori il fascismo sradicò dalla Sicilia la mafia. Che tornò nel ’45

5 Lug 2017 14:43 - di Antonio Pannullo

Oggi ricorre il 75° anniversario della morte del prefetto Cesare Mori (5 luglio 1942). Sul quel prefetto di ferro che sconfisse la mafia durante il fascismo, è stato detto e scritto praticamente tutto: su di lui sono disponibili una ventina di libri, vari film, alcuni sceneggiati, tra cui l’ultimo, una miniserie tv in due puntate, Cesare Mori – Il prefetto di ferro, è stato trasmesso nel 2012, a riprova della grande attualità dell’opera di questo servitore dello Stato che dimostrò che se una cosa si vuole fare, la si fa. Lui riuscì dove in seguito fallì l’Italia repubblicana, con gli assassinii di Carlo Alberto Dalla Chiesa, altro prefetto di ferro, dei giudici Falcone e Borsellino e di altre centinaia di uomini assassinati dalla criminalità organizzata siciliana. Quello che però si ignora ancora oggi è che Mori non era fascista, e che durante la presa del potere del fascismo, all’inizio degli anni Venti, fu tra i pochi capi della polizia che si oppose alle squadre fasciste con le armi; e nello stesso modo contrastò i socialisti che cercavano di scatenare i moti di piazza. Da integerrmi servitore dello Stato qual era, non ebbe colori politici ma applicò duramente la legge contro chiunque la infrangesse. Proprio per questa sua dirittura morale, il ministro dell’Interno Luigi Federzoni nel 1924 lo richiamò in servizio mandandolo in Sicilia, dove Mori era già stato prima del fascismo, distinguendosi per il suo operato efficace anche se severo. Mori rimase in Sicilia, prima a Trapani e poi a Palermo, per cinque anni, con l’incarico chiaro di sradicare la mafia da quella regione, che il governo Mussolini si era posto come priorità. Quello che è interessante oggi è capire come fece a debellare la mafia, come mai in seguito la mafia tornò, e quale debba essere il ruolo e il limite dello Stato nell’affrontare un’emergenza di questo tipo, emergenza che oggi, nel mondo occidentale, è presente solo nel nostro Paese, almeno a questo livello di organizzazione. Una delle linee-guida del fascismo era che nessun potere dovesse esserci al di fuori dello Stato, e certamente non un potere criminale. Il caso del Mezzogiorno d’Italia, dove il potere delle cosche strozzava l’economia delle regioni e dove pertanto la rivoluzione fascista non poteva convenientemente realizzarsi, convinse Benito Mussolini e i suoi collaboratori ad affrontare il problema. Sappiamo che nei primi mesi del 1924 Mussolini aveva compiuto un viaggio in Sicilia, dove alcuni fedelissimi lo avevano messo al corrente della situazione, situazione che sembrava veramente non risolvibile, in quanto il sistema mafioso era incancrenito e cristallizzato. Probabilmente Mussolini si rese conto che la credibilità del fascismo avrebbe subito un dito colpo se non avesse risolto il problema della mafia. In quello stesso anno, nel corso di pochi mesi, inviò in Sicilia Cesare Mori e il giudice Luigi Giampietro come procuratore generale e il delegato calabrese Francesco Spanò.

Mussolini a Mori: “Se le leggi non bastano, ne faremo di nuove”

Ecco il testo del telegramma di Mussolini al Mori: «Vostra Eccellenza ha carta bianca, l’autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente, ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi». Il fascismo voleva veramente risolvere una volta per tutte il problema della mafia in Sicilia, e lo fece, non esitando a coinvolgere e ad arrestare anche esponenti, grandi e piccoli, del fascismo locale. Mussolini in quello circostanza non guardò in faccia a nessuno. A Trapani, dove aveva dato già buona prova di sé qualche anno prima, Mori iniziò revocando tutti i porto d’armi, e istituendo una commissione per il controllo dei nullaosta relativi ai permessi di campieraggio e guardiania, attività legate a Cosa Nostra. L’anno successivo Mori fu nominato prefetto di Palermo, con competenza su tutto il territorio regionale e con ampi poteri, dove iniziò sul serio la battaglia. Battaglia che fu durissima, a tutti ii livelli: sradicò abitudini, consuetudini, arrestò signori e signorotti locali, latifondisti, impiegati pubblici, banditi, briganti, fascisti. I risultati furono straordinari già nei primi anni: nella sola provincia di Palermo gli omicidi scesero da 268 nel 1925 a 77 nel 1926, le rapine da 298 a 46, e anche altri crimini diminuirono drasticamente. Intraprese varie iniziative, ma lui andava particolarmente fiero dell’aver arrestato e fatto condannare Vito Cascio Ferro, pezzo da novanta della mafia italo-americana, che nel 1909 aveva assassinato sulla Marina di Palermo Joe Petrosino. La sua azione più famosa, perché spettacolare, fu il celebre assedio di Gangi, considerata allora una delle roccheforti dei mafiosi. Con un ingente numero di militi delle forze dell’ordine, Mori rastrellò il paese casa per casa, prendendo in ostaggio familiari di mafiosi per costringerli ad arrendersi, e riuscendo a catturare decine di mafiosi, banditi, criminali e latitanti. Probabilmente allora, per la durezza dei metodi, si guadagnò il soprannome col quale è ricordato. Oggi a Gangi c’è una targa che la popolazione grata gli ha dedicato per la sua opera meritoria. Nel 1928 fu nominato senatore, carica che rivestì per quattro legislature. Nel 2931 scrisse il suo libro di memorie più famoso, Con la mafia ai ferri corti, ripubblicato nel 1993. Come tornò la mafia lo sappiamo: tornò con i carri armati alleati nello sbarco in Sicilia, e con gli americani che misero i mafiosi a capo delle amministrazioni locali, considerandoli sicuri antifascisti.

Commenti

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  • Valter Rinaldi 21 Marzo 2019

    Purtroppo di prefetti Mori non ce ne sono più,e anche se ce ne fossero verrebbero ridotti nelle condizioni di non nuocere come è successo.Mi hanno fatto vergognare di essere italiano.Scusate il mio sfogo e tengo a precisare che non appartengo a nessun partito.