Così l’Italia sta perdendo la guerra dei contractors con Usa e Gran Bretagna (video)
La più famosa resta, indiscutibilmente, la Blackwater Usa fondata nel 1997 dall’ex-Navy Seal, Erik Prince. Che, dopo varie vicissitudini e altrettante polemiche – è stata pesantemente coinvolta in Iraq ed ha lavorato con contratti milionari per il governo degli Stati Uniti – ora si chiama Academi. Ed i cui contractors continuano a lavorare per governi, organizzazioni e agenzie di intelligence.
Ma, accanto a questa, sono centinaia e centinaia le compagnie militari private che, grazie all’emergenza terrorismo, ai rischi della pirateria e ai conflitti che infiammano il pianeta, incassano parcelle milionarie per proteggere, con i propri contractors, obiettivi marittimi ma, soprattutto, terrestri, rosicchiando il lavoro ai militari di professione in tutti i mercati verticali del business.
Più o meno tutti i Paesi hanno le proprie private military companies la cui forza-lavoro di contractors è costantemente alimentata da ex-militari, spesso delle Forze Speciali ed ex-agenti dell’intelligence. L’elenco è lungo, per non dire lunghissimo. E non sempre trasparente.
Gli Stati Uniti fanno, numericamente, la parte del leone. Oltre ad Academi, che ha il quartier generale a McLean, in Virginia, come la discussa Custer Battles che oramai ha chiuso i battenti, gli Usa schierano realtà come la G4A Risk management fondata, con il nome di The Wackenhut Corporation addirittura nel 1954, da 4 ex-agenti Cia, specializzata particolarmente nella protezione delle centrali nucleari e inciampata in una serie di gravi incidenti di percorso che, però, pur avendone intaccato la reputazione, non le impediscono di continuare a detenere saldamente il terzo posto nel settore della sicurezza privata a livello mondiale con un fatturato che nel 2012 ha superato i 12 miliardi di dollari.
L’Airscan, creata nell’84 da due ex-commandos delle operazioni speciali statunitensi, vanta, nel suo portafogli clienti, realtà come il Dipartimento della Difesa Usa, il Dipartimento dell’Energia statunitense e la Centrale nucleare di Savannah River. E, anch’essa, ha avuto non pochi incidenti di percorso.
Nella girandola di fusioni societarie e acquisizioni molte delle compagnie militari private ogni tanto scompaiono per ricomparire poco dopo sotto altre sigle e acronimi. Mani di poker che spiegano bene l’immenso giro d’affari che si cela dietro a questo mondo.
La statunitense Mvm Inc. fondata da un agente del Secret Service, ha in cassaforte contratti con il Dipartimento della Giustizia Usa, con l’Immigration Office, con l’Antidroga e con altre agenzie federali. Ma è diventata famosa per essere stata la prima agenzia militare privata statunitense a proteggere un capo di stato straniero, l’ex-presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide quando fu cacciato e poi reinsidiato dopo il colpo di Stato del 1991.
Dopo l’11 settembre Mvm ha avuto contratti milionari dall’Esercito Usa e dal Dipartimento di Giustizia. Fra i suoi datori di lavoro c’è anche la Cia e la Nsa.
La Triple Canopy lavora in Iraq, Sudamerica e Siria. E dà, a sua volta, lavoro ad altre private military companies. La Vinnel Corporation, sempre statunitense, ha preso contratti in Turchia, Arabia Saudita e Iraq.
La Gran Bretagna non è da meno con la Control Risks Group i cui contractors privati si occupano, per esempio, della sicurezza delle ambasciate britanniche, l’International Intelligence Limited, specializzata in operazioni di sicurezza e intelligence, la Erinys International, britannico-sudafricana ma con sede a Dubai.
Poi ci sono i contractors australiani di Sharp End International, perlopiù ex-istruttori delle Forze speciali, i contractors di Unity Resources Group che attingono a piene mani dalle ex-linee delle Forze speciali canadesi, neozelandesi, statunitensi e britanniche. E ci sono i peruviani di Defion Internacional che hanno lavorato con la Triple Canopy nella Green Zone di Bagdad creando quasi un caso diplomatico.
I cinesi, accusati spesso di non andare troppo per il sottile quando si tratta di sparare sui pirati – celebre un video molto virale che gira in rete dove alcuni pirati vengono ammazzati senza troppi complimenti mentre annaspano in acqua dopo aver tentato di arrembare senza successo un mercantile – hanno trovato la soluzione proprio in Erik Prince, l’ex-fondatore della prestigiosa e contestata Blackwater Usa, che li ha aiutati a mettere in piedi un paio di private military companies fra cui la Frontier Services Group.
Inutile dire che, nel settore delle private military companies, gli israeliani hanno una notevole voce in capitolo.
Ma quella che oggi fa davvero man bassa di contratti, e lo fa perfino in Italia, è la compagnia militare privata britannica Aegis Defences Services, con uffici sparpagliati in mezzo mondo e sedi in Iraq, Kenya, Nepal, Afghanistan, Bahrain e Stati Uniti.
Non a caso sono proprio i contractors britannici di Aegis a occuparsi di proteggere e scortare perfino il personale italiano della Farnesina del Provincial Reconstruction Team impegnato in Iraq a prendere accordi con i vari signori dei clan in una prospettiva di cooperazione fra civili e militari per affrontare la fase di stabilizzazione del Paese, la messa in sicurezza, la ricostruzione delle infrastrutture e l’afflusso e la distribuzione di aiuti umanitari.
Non a caso sono sempre gli stessi Pmc britannici di Aegis ad occuparsi di proteggere i siti sensibili e i cantieri di trivellazione a Bassora, in Iraq e in Libia dell’italianissima Eni. E gli italiani? Farnesina ed Eni non si fidano, dunque, delle private military companies italiane e dei pur addestratissimi ex-militari italiani delle Forze Speciali, fra i migliori al mondo, ora inquadrati nelle società militari private? E non ci sono solo la Farnesina e l’Eni. Sono centinaia e centinaia le aziende italiane, soprattutto nel settore delle costruzioni e delle infrastrutture, che lavorano all’estero, spesso in zone particolarmente pericolose. E che ricorrono ai contractors stranieri – spesso inglesi – e ai contractors locali. Con tutto il rischio che questo può comportare. Basti ricordare i rapimenti, finiti, in qualche caso, nel sangue, dei tecnici italiani in Libia o in Nigeria.
In Italia sono sostanzialmente due le private military companies che si spartiscono il mercato, ma con molti limiti, reclutando perlopiù personale proveniente dalle Forze Armate italiane anche grazie ad alcune convenzioni firmate con il ministero della Difesa: G7 e Metro.
I contractors che cercano lavoro all’estero nel settore della sicurezza privata e, nello specifico, nell’antipirateria, a caccia di uno stipendio che può arrivare anche a 4.000 euro, vengono reclutati – e formati con un corso di 3 moduli – essenzialmente da queste aziende. Che possono operare in mare, in assetto antipirati, ma non nel terrestre in zone di conflitto.
La legge italiana lo vieta. Ed è questo il grande limite rispetto a tutti gli altri Paesi che si dividono, lasciando fuori l’Italia, il ricchissimo mercato dei contractors di terra.
Un mercato che per la legge italiana è vietato. Si viene considerati dei soldati di ventura. Mercenari. E perseguiti penalmente. Così come chi arruola. L’articolo 288 del codice penale è molto chiaro. E prevede pene da 4 a 15 anni di reclusione.
La conferma del “buco” normativo che lascia l’Italia incredibilmente fuori dal ricchissimo mercato mondiale dei contractors armati terrestri arriva da Luciano Campoli, amministratore delegato della G7. Che lavora sia sulle navi delle Ong – ma, in questo caso, senza armi – sia in funzione antipirateria che sul terrestre. Ma, appunto, con i limiti e i lacci della legislazione italiana.
Campoli, ex-carabiniere in servizio alla Nato in Belgio, poi agente segreto del controspionaggio militare ai tempi gloriosi del generale Nicolò Pollari e del Sismi, quindi all’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza estera e, infine, scelto dall’allora Direttore generale della Rai, Lorenza Lei come responsabile della sicurezza aziendale, prima di mettersi in proprio con la sua G7 dopo essersi ricomprato le quote della britannica Triskel, chiarisce bene la questione mettendo a nudo tutte le contraddizioni tipicamente italiane della faccenda: «Esiste un decreto, il 266 del 2012, che norma l’attività antipirateria. Ma non esiste un decreto speculare nell’attività terrestre in zone di guerra. L’Italia è forse l’unico Paese, da questo punto di vista, che manca di queste norme. E così siamo costretti a bypassare il problema inviando in determinate aree i nostri security manager, magari ex-militari delle Forze Speciali italiane, che si limitano a coordinare le attività delle private military companies locali, quindi non italiane. Sono questi ultimi a imbracciare le armi. I nostri security manager non possono farlo. Più di questo non ci è consentito. E questo è incredibile perché poi gli italiani sono considerati fra i migliori al mondo in questo tipo di attività».
Il tema più delicato è quello delle armi.
L’antipirateria marittima prevede l’utilizzo delle cosiddette floating armories, delle vere e proprie armerie galleggianti, navi dedicate esclusivamente a questo.
Stazionano ben al di fuori delle acque territoriali, appena ai bordi delle Hight Risk Area, le aree a rischio pirateria. E accolgono, come degli alberghi-fortini in mezzo al mare, i contractors inviati dalle varie compagnie militari private per poi smistarli, armati di tutto punto, sulle navi in transito che stanno per entrare nelle acque considerate più pericolose al mondo per il brigantaggio marittimo: il Golfo di Aden ed il bacino Somalo all’interno delle congiungenti Haradere-Seychelles-Kysmayo, le coste della Tanzania e del Kenya, il sud del Mar Rosso, il Golfo di Oman, nei pressi delle Maldive, delle Comore e delle Seychelles, lo stretto di Bāb el-Mandeb, che congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden, aprendosi, poi, vero l’Oceano Indiano oltre al famoso e delicatissimo IRTC, il corridoio internazionale di transito raccomandato dove vigilano costantemente le navi della Quinta Flotta della Marina Usa, quelle dell’Unione Europea e quelle della Nato e dove è obbligatorio, per alcune navi di una certa stazza, transitare al buio, completamente oscurate, per celarsi agli occhi dei pirati, oppure attendere al punto di raccolta dove si parte scortati, solo con la luce del giorno, da un convoglio militare pesantemente armato. Tutte zone dove bisogna stare sempre con gli occhi apertissimi. Anche se le scorrerie sono notevolmente diminuite sia per la presenza dei contractors armati a bordo nave, sia per lo strettissimo controllo delle flotte militari.
Gli attacchi dei pirati contro le navi commerciali vengono portati, tipicamente, durante le prime ore della mattina o anche in orari notturni in caso di buona visibilità, da barchini a volte in vetroresina, i cosiddetti skiffs, il cui materiale di costruzione non può essere “battuto” dai radar della nave. Sono praticamente invisibili ai radar mentre si avvicinano.
Se l’attacco avviene in mare aperto invece che in prossimità della costa, c’è il supporto di una nave Madre, in genere ex-pescherecci, utilizzata sia per trasportare i pirati che l’equipaggiamento, gli skiff, il combustibile e, ovviamente, le armi, perlopiù leggere, tipo i Kalashnikov AK 47 e i razzi RPG per intimare lo stop alla nave.
Il fuoco viene sviluppato verso il ponte di comando della nave per obbligare l’equipaggio a ridurre la velocità e poterla così abbordare con scalette di metallo telescopiche e con uncini da ancorare alle paratie.
I contractors imbarcati dalle varie agenzie di sicurezza private in funzione antipirateria hanno, prima di tutto, un ruolo di deterrenza. Ma se la situazione precipita, per esempio per l’abbordaggio della nave che stanno proteggendo, sono autorizzati ad eliminare la minaccia facendo fuoco con le armi in dotazione. Naturalmente non è tutto così automatico.
Esiste un coordinamento, in caso di attacco pirata, fra il Team Leader del gruppo di contractors, generalmente 4, ed il Comandante della nave che è sempre il principale responsabile della sicurezza a bordo. E, comunque, il lavoro degli operatori a bordo, segue regole e procedure ben dettagliate e precise, nulla è lasciato al caso o all’iniziativa personale.
I compiti operativi variano in base ai vari livelli funzionali del team: dalla messa a punto delle difese passive all’adeguata chiusura di tutti i possibili vani di entrata, dall’oscuramento della nave in zona-rischio, alle regole d’ingaggio in caso di fuoco nemico, dal briefing con il comandante della nave e con l’equipaggio, al controllo e alla messa a punto della cosiddetta Safe room dove tutto il personale non addetto alla protezione della nave deve ritrovarsi e chiudersi dentro in caso d’attacco, dalle comunicazioni fra il team e gli organi di controllo internazionali – il Maritime Security Center, il NATO Shipping Center, l’United Kingdom Maritime Trade Operations – alle nozioni di primo soccorso in caso di feriti e alle eventuali richieste di evacuazione medica.
Già si comprende che un’attività come quella del contractors per l’antipirateria marittima può essere svolta praticamente solo da ex-militari più che addestrati, con background operativi di alto livello, possibilmente nelle Forze Speciali.
D’altra parte gli attacchi portati contro le navi commerciali da pirati somali e yemeniti hanno, oramai, la stessa forma di un attacco terroristico condotto per eliminare personale civile e sequestrarne il carico. Nella mutazione che sta, via via, assumendo il terrorismo globale questi attacchi possono considerarsi, a tutti gli effetti, attacchi terroristici.
E, da questo punto di vista, la tendenza di certi armatori a imbarcare, al posto di contractors italiani provenienti dalle Forze armate, personale poco addestrato, spesso ucraini o polacchi che si fanno appositamente domiciliare presso una società greca per costare di meno, rischia di essere molto pericolosa. Anche perché le società assicuratrici come i Lloyd’s pagano solo se vi sono determinati requisiti.
Tuttavia non è sempre necessario sparare per respingere gli attacchi dei pirati. «A marzo dello scorso anno – rivela l’Ad di G7, Luciano Campoli – una nave commerciale che i nostri uomini stavano scortando nello stretto di Hormuz – subì un attacco dei pirati. Erano 8 barchini. Furono respinti senza sparare, in quel caso, un solo colpo. Furono sufficienti i classici razzi di segnalazione a mare. Oltre all’utilizzo di sagome di cartone – incredibile ma vero – che fecero credere ai pirati di essere numericamente inferiori quando invece sulla nave c’erano solo 4 contractors»
Concluse le missioni antipirateria – che possono durare da venti giorni ad un paio di mesi – comunque i contractors sono tenuti a riconsegnare le armi alle floating armories che le custodiscono per le successive operazioni. Oppure, se è prevista una sosta intermedia in un porto amico nel corso della navigazione, le armi vengono date in custodia momentanea alla polizia del territorio ospitante. Anche se non tutti i paesi danno accesso e fanno sbarcare i contractors.
Nel caso dei contractors terrestri italiani, come si è visto, le cose sono molto diverse. Gli italiani non possono imbracciare le armi in zone di guerra. E quindi sono i contractors locali ad armarsi mentre gli italiani devono limitarsi ad addestrarli e a coordinarli come dei veri e propri manager, sia pure della sicurezza.
Ma il problema non è solo questo. C’è un aspetto ancora più delicato.
Spiega un ex-incursore pluridecorato delle Forze Speciali italiane che viene spesso imbarcato dalle poche società militari private italiane sulle navi commerciali nei team antipirateria a protezione dei carichi che solcano i mari nelle aree più a rischio per il brigantaggio marittimo e utilizzato anche come security manager nel terrestre per addestrare i contractors stranieri delle società locali dove si opera: «purtroppo questo aspetto è molto limitante. Ma, soprattutto, mette a rischio buona parte delle informazioni sensibili e delicate, per non dire riservate, che realtà come Eni e Farnesina – ma anche molti altri – trattano o possono trattare. E’ facile capire che contractors stranieri, spesso provenienti anche dall’intelligence militare straniera, sono naturalmente portati ad acquisire informazioni. E qualcosa che hanno inevitabilmente nel Dna. E quando sono sul campo, magari scortando un funzionario della Farnesina o un dirigente Eni, vengono naturalmente a conoscenza di informazioni e dettagli che possono essere elementi preziosi per qualcun altro. In questo gli inglesi sono maestri».
Insomma i motivi per aprire alla private military companies italiane il mercato mondiale della sicurezza terrestre sono molti e molto importanti.
E allora cosa frena l’approvazione di una normativa ad hoc che consenta alle società private italiane di schierare i propri contractors nel terrestre come fanno tutti gli altri Paesi del mondo evitando di cedere notizie riservate a Paesi stranieri e, oltretutto, dando lavoro agli italiani ed evitando così che accada nuovamente ciò che accadde ai compagni di sventura di Fabrizio Quattrocchi processati perché ritenuti mercenari?
Qualche anno fa il Centrodestra si fece promotore di una normativa in questo senso. Ma le cose non andarono poi in porto.
Molti contractors sono convinti che la normativa sull’operatività delle private military companies italiane in ambito terrestre non viene adottata perché l’Arma dei carabinieri , che vigila, per esempio, sulle ambasciate italiane all’estero, è contraria e, sotto sotto, sta remando contro. Di certo è qualche anno che se ne discute. Ma non si muove nulla.
Dice Campoli: «Non è così. C’è però da dire che i nostri contractors costano la metà di quanto costa allo Stato schierare un carabiniere». Di che cifre si parla? «Fatti i conti, un carabiniere schierato a difesa di un obiettivo sensibile costa allo Stato una media di 6.000-7.000 euro al mese, i nostri contractors costano la metà». E soprattutto si evita il rischio di un nuovo caso Marò. Con le diplomazie rigidamente inchiodate su un contrasto fra Stati che sta durando anni. E sta lacerando l’immagine dell’Italia in tutto il mondo.